L’economia siciliana si basava principalmente su colture specializzate gestite dalla borghesia commerciale e industriale, sulla pesca e sull’estrazione di zolfo e carbone nelle miniere locali, che alimentavano un consistente commercio di esportazione, diretto verso Inghilterra, Francia, Piemonte e Austria.

Sia la struttura economica siciliana, sia la lotta sociale e politica evidenziano in buona sostanza, nella prima metà dell’Ottocento, un’ alleanza ben salda tra ex-baroni e grandi borghesi agrari, accomunati dalla linea anticontadina e dai metodi di conduzione della terra prevalentemente a colture cerealicole, dal momento che gli uni e gli altri miravano ad accrescere l’estensione dei loro feudi e non a migliorarne la produttività con impiego di capitali.

Una posizione minoritaria rivestivano le aree a colture specializzate (agrumi, vite, frutta, olivi, cotone, seta, sommacco) gestite dalla nuova borghesia commerciale ed industriale, che stentava ad allargare i propri spazi, compressa com’era dalla struttura latifondistica. Queste colture, insieme all’artigianato, all’industria dello zolfo ed ai prodotti della pesca (acciughe, sarde e tonno salati), alimentavano un consistente commercio di esportazione, diretto verso Inghilterra, Francia, Piemonte, Austria e in piccola parte verso Stati Uniti e Russia, che costituiva un indice obiettivo di sviluppo e di rafforzamento dei nuclei di borghesia commerciale e finanziaria. Le esportazioni superavano le importazioni e, pur essendo principalmente collegate all’agricoltura, non vedevano più il primato del grano, ma di prodotti specializzati: agrumi, frutta secca (mandorle, nocciole, carrube), manna, olio d’oliva, seta grezza e lavorata, sommacco, vino.

Nel quadro delle esportazioni era assai importante l’industria dello zolfo, la cui vicenda costituisce un dato caratterizzante di grande rilievo per l’economia della Sicilia. In stretto rapporto con lo sviluppo delle esportazioni era quello della marina mercantile, quasi tutta a vela, mentre modesto era il numero delle navi a vapore. Le navi mercantili a vela raggiungevano nel 1835 le 2058 unità, mentre le navi a vapore erano ancora nel 1859 soltanto 4. La marina a vapore era gestita da una società composta da due grossi commercianti siciliani, il barone Bordonaro e l’industriale Vincenzo Florio, soci di maggioranza, e dall’inglese Beniamino Ingham; essa iniziò l’attività con il piroscafo "Palermo" di 150 cavalli e si trasformò, dopo il 1848, in "Ditta Ignazio e Vincenzo Florio". Oltre a collegare la Sicilia con le isole minori, svolgeva il servizio postale tra Napoli e i porti siciliani.

Modesto era in Sicilia lo sviluppo dell’industria a causa dei vincoli posti dalla politica protezionistica del governo borbonico e della mancanza di canali di credito. Predominava l’impresa artigiana, diretta più che altro al consumo interno, con un numero di addetti da 5 a 10 per singola impresa. Le attività prevalenti erano la concia delle pelli, specie a Catania e Messina, i lavori in ferro, il mobilificio, la cera, le carrozze, i guanti, i cappelli da uomo. Industrie propriamente dette esistevano nel settore tessile per la lavorazione del cotone e della seta, agevolato, quest’ultimo settore, dalla bachicoltura delle campagne catanesi e messinesi. Nell’industria figurava l’intervento del capitale straniero e la città più industrializzata era Messina, nel cui territorio intorno al 1855 operavano 40 medie e grandi aziende, oltre alle piccole, che occupavano 498 uomini, 966 donne, 235 ragazzi sotto i sedici anni con una media di 42 lavoratori per azienda. Seguivano Catania e, in misura minore, Palermo, Siracusa, Trapani. Talune aziende erano molto ben dirette da tecnici inglesi, svizzeri, francesi, come la fabbrica Ruggieri di Tremestieri nel territorio di Catania, che impiegava 306 tessitrici e molti operai. Era diffusa anche la tessitura a domicilio.

Consistente rilievo avevano l’indutria vinicola, concentrata soprattutto a Marsala, e quella estrattiva dello zolfo nelle province di Caltanissetta, Enna, Agrigento; l’industria zolfifera era, però, afflitta da continue crisi di sovrapproduzione.

Il quadro delineato testimonia che nell’economia siciliana della metà dell’Ottocento emergevano significativi fattori di sviluppo e di trasformazione accanto al permanere dell’arcaica struttura di un’economia agraria di tipo latifondistico, che determinava il sorgere di notevoli tensioni sociali.