La politica riformatrice nel regno delle Sicilie ebbe una battuta d’arresto per la morte del Caracciolo proprio in coincidenza con lo scoppio della rivoluzione francese. La morte dell’energico primo ministro, infatti, indebolì il movimento riformatore, che non fu in grado di esprimere un elemento che potesse adeguatamente sostituirlo, e si addivenne ad un compromesso: le funzioni di primo ministro furono rivestite contemporaneamente da due personaggi politici, espressione delle due opposte tendenze riformatrici, e cioè il De Marco, dell’entourage del Caracciolo, e sir John Acton della corrente opposta.

Il mutato clima politico si avvertì anche in Sicilia in occasione del parlamento del 1790, quando il vicerè Caramanico, che pure aveva condotto una politica prudente e priva di cambiamenti costituzionali, fu apertamente attaccato dall’arcivescovo di Palermo, il Sanseverino, che lo accusò di avere instaurato un clima "di irreligiosità", di miscredenza e di malcostume" conforme ai dettami della filosofia illuministica.

I baroni, da parte loro, approfittarono della situazione per mettere in discussione tutta la politica di riforme degli anni ’80 e per avanzare richieste che, se accolte, li avrebbero avvantaggiati sul piano politico. Essi chiesero: primo, che il re ordinasse alla Giunta di Sicilia di riesaminare tutte le leggi ed i provvedimenti emanati ultimamente dal Caracciolo e dal Caramanico; secondo, che un componente della Giunta di Sicilia fosse inserito nel Consiglio delle Finanze, l’organo che dirigeva il settore economico-sociale e che gestiva i progetti di riforma. Il re si mostrò disponibile ad accogliere queste richieste, ignorando gli avvertimenti del vicerè Caramanico, che lo metteva in guardia contro il tentativo baronale di demolizione delle riforme.

Il Caramanico continuò la sua politica riformatrice emanando importanti provvedimenti, come la censuazione dei beni demaniali comunali, l’alienazione dei beni ecclesiastici e la concessione in enfiteusi delle terre di regio patronato. Egli non fu ostacolato nell’attuazione delle riforme, perchè da un lato l’incremento demografico del regno delle Sicilie e l’accresciuto fabbisogno alimentare rendevano indifferibile un profondo cambiamento delle strutture agrarie e produttive, dall’altro le riforme furono indirizzate in maniera tale, che furono i nobili ed i borghesi a trarne i maggiori vantaggi.

In conclusione il 1789 segnò per il regno delle Sicilie l’arresto del movimento riformatore caracciolano ed il prevalere di forze conservatrici e reazionarie che non poterono, però, cancellare in un colpo solo gli effetti del movimento riformatore, ma lo continuarono cambiandone i destinatari, infatti negli anni dall’89 al ’94 nel contrasto tra conservatori e riformatori prevalsero i riformatori moderati, quelli, cioè, che si muovevano sullo stesso terreno del Caracciolo, ma indirizzando i benefici delle riforme non già ai contadini, ma ai baroni, come già proposto nella ricordata "Memoria" sull’agricoltura del principe di Trabia. Ad esempio la ripartizione dei demani comunali dati in censo, che favoriva il popolo, si accompagnò alla liberazione delle proprietà baronali dagli usi civici, con evidente vantaggio per i baroni. La prima misura era prevista dal programma del riformismo radicale caraccioliano, la seconda fu propria del riformismo moderato baronale, che usava la logica delle riforme nella direzione ad esso favorevole, infatti, cancellando i diritti popolari sulle terre signorili, colpiva gli interessi del popolo e compiva un passo decisivo per la creazione di una proprietà in senso borghese libera da vincoli di retaggio feudale.

Anche la censuazione dei beni demaniali del 1790-’91 fu condotta dal Natale, regio delegato alla censuazione dei beni demaniali e autore delle "Istruzioni Prudenziali", con modalità tali che ne fu snaturato lo spirito, infatti, mentre la censuazione dei beni gesuitici fu diretta esclusivamente ai contadini, quella dei beni demaniali, in contrasto con quanto precedentemente disposto dal Caracciolo, fu diretta a tutti gli abitanti dei comuni interessati, fossero essi contadini, borghesi o nobili; inoltre, nonostante i contadini fossero assai più numerosi di nobili e borghesi, ebbero solo il 20% delle terre assegnate, mentre l’80% andò a nobili e borghesi. Le modalità di assegnazione del 20% delle terre demaniali ai contadini furono tali da perpetuare il loro rapporto di subalternità nei confronti di nobili e borghesi, infatti solo una parte delle terre fu data direttamente ad essi da parte dello stato, mentre la maggior parte fu assegnata loro in maniera indiretta, e cioè fu fatto obbligo agli assegnatari nobili e borghesi di appezzamenti di terra molto vasti di subconcedere a contadini il 20% della superficie ottenuta.

Mentre con l’assegnazione diretta il contadino aveva come interlocutore lo stato e si sentiva affrancato dalla dipendenza dai ceti dominanti, con quella indiretta, invece, rimaneva ad essi legato da un rapporto di subalternità. Le modalità con cui fu effettuata la censuazione ebbero, dunque, come conseguenza la concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di pochi e la perpetuazione dello stato di soggezione dei contadini. La censuazione, inoltre, con la soppressione degli usi civici danneggiò il popolo, che non poteva più usufruirne.

Contro lo scempio del patrimonio civico operato dalla censuazione realizzata dal Natale si levarono le proteste di chi ne era danneggiato e furono così energiche, che l’operazione fu sospesa ed il Natale fu chiamato a Napoli per dare spiegazioni del suo operato, ma egli ne dimostrò l’assoluta aderenza alla legge, in ciò sorretto dal Caramanico. Al Natale fu, però, affiancata una Giunta delle censuazioni e da quel momento le necessarie pratiche burocratiche le rallentarono di molto, ma, nonostante ciò, alla vigilia della Costituzione del 1812 circa 80 mila ettari di terra erano passati dal demanio ai privati, costituendo grosse proprietà terriere, mentre dei patrimoni comunali restava assai poco.