Il baronaggio siciliano intraprese due iniziative, una di carattere politico, l’altra di carattere economico. La prima mirava a sganciare il regno delle Sicilie dalla tutela spagnola per avvicinarlo all’Austria, mentre la seconda era diretta ad impadronirsi dei beni della Chiesa disponendo per legge che i beni dei gesuiti fossero venduti in grosse partite al miglior offerente.

Il baronaggio siciliano, in risposta alle riforme del Tanucci, intraprese, da parte sua, due iniziative, una di carattere politico, l’altra di carattere economico.

La prima mirava, con l’appoggio del nuovo primo ministro, marchese della Sambuca, e della regina di Napoli, Maria Carolina d’Asburgo, a sganciare il regno delle Sicilie dalla tutela spagnola per avvicinarlo all’Austria. Un tale progetto, però, se portato a termine, non avrebbe favorito la Sicilia, dal momento che l’impero asburgico, a differenza della Spagna, combatteva ogni tendenza centrifuga e mai avrebbe consentito l’autonomia della Sicilia nei confronti di Napoli.

La seconda era diretta ad impadronirsi dei beni della Chiesa, che la politica del Tanucci aveva fino a quel momento destinato a scopi sociali, infatti, stravolgendo l’indirizzo precedente, sotto il Sambuca fu disposto per legge che i beni dei gesuiti fossero venduti in grosse partite al miglior offerente, anche quelli già quotizzati; in quest’ultimo caso i contadini concessionari dello stato sarebbero diventati enfiteuti del nuovo acquirente.

Il ministro Sambuca, con grande spregiudicatezza, si aggiudicò la vendita di oltre 12.000 ettari, e per la sua biasimevole condotta fu sottoposto ad un processo, da cui si salvò a stento, grazie ad alcune scorrettezze commesse dal suo accusatore durante il processo. Analogo accaparramento fu operato dai sostenitori del Sambuca e, dopo la vendita dei beni dei gesuiti e di quelli dell’arcivescovo di Monreale, si posero le mani sui patrimoni delle ricche abbazie. Il fenomeno assunse aspetti e proporzioni così scandalosi, che si trasformò in un vero e proprio furto del patrimonio ecclesiastico siciliano e fu necessario emanare nel 1782 un provvedimento che negava per l’avvenire l’assenso regio ad operazioni di tal genere.

Nonostante la reazione regia alla rivolta di Palermo fosse stata blanda, cominciò ad emergere a Napoli un indirizzo di governo che tendeva ad estromettere il baronaggio siciliano, ritenuto infido, dalle funzioni primarie di governo dello stato e ad instaurare un regime in cui l’elemento partenopeo dominasse su quello siciliano. Quando nel 1774 si dovette nominare, al posto del Fogliani, il nuovo vicerè, che non doveva essere napoletano, la scelta cadde sul principe di Stigliano (1774-1781), che era spagnolo di nascita, ma napoletano di adozione. Le direttive ricevute dal nuovo vicerè erano quelle di tenere a bada i baroni e di pretendere da essi il rispetto delle leggi, ivi compreso il pagamento puntuale dei loro debiti. In passato i nobili erano stati spesso debitori insolventi ed avevano chiesto ed ottenuto diverse moratorie. Ora che si riteneva che le basi del regno fossero abbastanza solide e che si potesse fare a meno dell’appoggio dei baroni, si pensò di trattarli con maggiore rigore.

Nel 1776 si compì nel regno delle Sicilie una svolta storica, che portò il regno a sganciarsi dalla Spagna per avvicinarsi all’Austria. Pressavano in tal senso la regina Maria Carolina, che era della famiglia degli Asburgo, ed il ministro Sambuca, personaggio di non eccelse capacità politiche, che si prestò inconsapevolmente ad un gioco politico suicida senza comprenderne la portata. La regina Maria Carolina perseguiva l’obiettivo di una politica assolutistica simile a quella asburgica ed aveva buoni motivi per caldeggiare l’avvicinamento di Napoli all’Austria; il ministro Sambuca, invece, come rappresentante del baronaggio non avrebbe dovuto caldeggiare lo sganciamento dalla Spagna, che governava i suoi domini consentendo posizioni di autonomia come quella di cui godeva la Sicilia, e l’avvicinamento all’Austria, che seguiva un indirizzo politico di accentramento assolutistico. Egli si prestò ad appoggiare il disegno politico della regina senza intuire la portata delle conseguenze per il baronaggio.