Gli Inglesi, guidati da Giuseppe Bonaparte, riuscirono ad impedire ai francesi di conquistare la Sicilia.

Nel 1806 re Ferdinando, detronizzato da Napoleone, che metteva sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat poi, dovette riparare nuovamente a Palermo con l’aiuto dell’esercito inglese. Questa volta l’accoglienza che gli riservarono i Siciliani fu non solo fredda, ma anche infastidita dalla presenza, oltre che del re e della corte, di una massa di profughi napoletani, che vivevano alle spalle della Sicilia e spadroneggiavano con molta disinvoltura, nè il re seppe accattivarsi l’appoggio dei Siciliani chiamandoli a far parte della compagine governativa.

Il trionfo di Napoleone condizionava l’unica speranza di sopravvivenza per i Borboni ad una stretta alleanza con gli Inglesi, e questi ultimi, tenendo in piedi in Sicilia il regno di Ferdinando di Borbone, si resero conto che l’astio che i baroni siciliani provavano contro Ferdinando poteva ritorcersi anche contro di loro che lo sostenevano; si fecero, allora, promotori di una politica liberale e baronale volta a promuovere una politica riformista e nazionalista, che prevedeva l’ingresso dei baroni nel governo.

I nobili, pur paventando un estendersi della rivoluzione francese, non videro nella monarchia, come sarebbe stato naturale aspettarsi, un’alleata contro la rivoluzione, ma la osteggiarono a causa del pesante aggravio fiscale da essa operato nei loro confronti. Altro motivo di astio nei confronti del re era il suo totale rifiuto a riconoscere l’esistenza di una nazione siciliana ed il considerare il regno come proprietà personale. Il re mostrava, inoltre, di non rispettare, nè tanto meno di apprezzare, la tradizione storica siciliana, ricca di glorie e di arte, e amava circondarsi di napoletani, mentre i figli cadetti dei nobili avrebbero sperato di rivestire uffici a corte e nella burocrazia. Egli, pur di non chiedere al parlamento siciliano donativi per assicurare la difesa (esercito e marina borboniche erano in Sicilia ben poca cosa), chiese agli Inglesi, sebbene a malincuore, di fare giungere truppe britanniche, che provvedessero ad assicurarla.

Fu merito soltanto degli Inglesi se i Francesi inviati da Giuseppe Bonaparte, che si era dato il titolo di re delle Sicilie, non riuscirono a conquistare la Sicilia; le cannoniere borboniche, infatti, che presidiavano lo stretto di Messina, tennero lontani i Francesi, che, peraltro, mancavano di mezzi di trasporto. Il sussidio finanziario che gli Inglesi dettero a Ferdinando di Borbone per la difesa delle Sicilie egli lo spese altrimenti, affidando completamente a loro l’onere della difesa, non stupisce, quindi, se maturò in ambienti britannici il disegno di unire la Sicilia alla Gran Bretagna.

La presenza dell’esercito inglese in Sicilia con circa 17.000 soldati, che spendevano parecchio, ebbe una vantaggiosa ripercussione di ordine economico, che giungeva provvidenziale dopo un periodo di contrazione del commercio e dei consumi. A ciò si aggiungano i prestiti del governo britannico e gli investimenti dei privati, circostanze che crearono un subitaneo rifiorire dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, testimoniato dalla presenza in Sicilia nel 1812 di 30 consoli e viceconsoli inglesi. La marina britannica protesse la Sicilia dai pirati, mentre l’agricoltura si avvantaggiò del blocco continentale posto da Napoleone, che con la penuria di derrate agricole fece aumentare considerevolmente il valore della terra. Contadini ed artigiani conobbero il benessere, mentre venivano aperte nuove miniere di zolfo e di asfalto. Una piccola fabbrica meccanica nata in questo periodo, gestita dalla famiglia Orlando e trasferita in periodo successivo nell’Italia settentrionale, divenne il più grande complesso industriale della penisola.

La continuazione della guerra rese, però, necessario il ricorso a nuovi prelievi fiscali per l’armamento dell’esercito borbonico ed essi non potevano gravare sui poveri, perchè questo avrebbe paralizzato l’economia, bensì sui ricchi. I baroni siciliani, però, non erano sostenitori di Ferdinando a causa della recisa opposizione di quest’ultimo al loro ingresso nel governo, sicchè i nobili misero in atto una tattica di resistenza moderata, ma ferma, dal momento che essi non volevano scatenare in Sicilia rivoluzioni che potessero evolvere in senso giacobino. Questo loro atteggiamento emerse chiaramente quando la monarchia borbonica con l’editto dell’ 11 febbraio 1811 impose con un arbitrio costituzionale il pagamento delle somme necessarie al riarmo dell’esercito borbonico, mentre il parlamento si era pronunziato per uno stanziamento assai minore. La Deputazione del Regno, garante delle Costituzioni e dei privilegi della nazione siciliana, non rilevò la violazione delle prerogative parlamentari e non si oppose a questo atto di forza del re, temendo, appunto, in caso contrario di scatenare una rivolta repubblicana, mentre i baroni erano assolutamente monarchici.

La classe baronale continuò, però, ad opporre una resistenza varia ed articolata, ma sempre nei limiti della legalità. L’editto reale fu formalmente contestato con una petizione firmata da 43 baroni componenti del parlamento, raggruppati intorno al principe di Belmonte; fu impugnata l’alienazione dei beni ecclesiastici, prevista dallo stesso editto, perchè non sottoposta all’approvazione del parlamento; fu suscitata la resistenza dei mercanti inglesi operanti in Sicilia contro la tassa dell’1% sulle entrate, dal momento che essi non erano sudditi del re borbonico. La questione toccava direttamente anche gli Inglesi, che erano interessati al rafforzamento dell’esercito, ma non a quello della monarchia borbonica, e il rappresentante britannico a Palermo, lord Amherst, rassegnò le dimissioni.

La Deputazione del Regno, che avrebbe dovuto difendere i Siciliani contro l’arbitrio regio, si dichiarò, invece, del parere che il re potesse imporre tasse senza la preventiva approvazione del parlamento. A questo punto Belmonte ed i suoi chiesero segretamente aiuto agli Inglesi, dichiarandosi disposti ad accettare un re scelto dall’Inghilterra ed a convocare un nuovo parlamento a Messina; ma il re, informato del fatto, fece arrestare i cinque più portanti esponenti della protesta, e cioè il Belmonte, il Castelnuovo, i principi di Villafranca e di Aci, il duca d’Angiò.

Al posto del dimissionario lord Amherst l’Inghilterra inviò in Sicilia lord William Bentinck, uno dei funzionari più prestigiosi ed autorevoli dell’amministrazione imperiale britannica, appartenente al partito whig. Lord Bentinck, già governatore delle Indie, veniva in Sicilia investito di poteri speciali per attuare un disegno politico internazionale che, partendo dalla Sicilia, aveva come obiettivo il sostegno alla guerra di Spagna e la riconquista del Regno di Napoli. A tale scopo si doveva promuovere il superamento dei contrasti e la collaborazione tra monarchia e baronaggio.

Il Bentinck incontrò la recisa opposizione dei sovrani, soprattutto della regina Carolina, a collaborare con i baroni, e ritornò in Inghilterra per ricevere nuove istruzioni. Questa volta ebbe carta bianca e fu autorizzato anche all’uso della forza pur di mettere ordine nella situazione dell’isola, a condizione che il regno di Sicilia rimanesse nelle mani di un rappresentante della dinastia borbonica. La Sicilia pacificata doveva dare vita ad un governo nazionale, che si facesse carico di approvare una nuova Costituzione basata su principi liberali. Spagna e Sicilia con il loro nazionalismo costituzionale avrebbero rappresentato il baluardo dell’ offensiva inglese contro l’impero napoleonico.

I baroni non avevano reagito di fronte al colpo di mano del re, tranne Luigi Filippo, futuro re di Francia, che era barone parlamentare in Sicilia, avendo sposato la figlia di Ferdinando di Borbone. La reazione venne dagli Inglesi, che avevano in Lord Bentinck un emissario energico ed agguerrito. L’Inghilterra, che sosteneva in Sicilia la maggior parte delle spese di governo, oltre a fornire un esercito di circa 17.000 soldati e a dare un consistente sussidio, decise che fosse giunto il momento di intervenire energicamente per sconfiggere non con l’impiego della forza, ma con un parlamentarismo liberale di tipo inglese, la politica assolutistica di Ferdinando di Borbone, sospettato, tra l’altro, di essere in contatto con i Francesi. Lord Bentinck costrinse re Ferdinando a ritirarsi nella reggia palermitana di Ficuzza, lasciando come vicario il figlio Francesco, mentre la regina Carolina fu allontanata dalla Sicilia; il governo fu assunto da baroni di idee liberali, messi in carcere sotto il precedente governo. Il parlamento fu convocato per affidargli il compito di redigere una costituzione liberale.