Nel 1837 scoppiò un epidemia di colera ed in coincidenza tumulti in alcune città dell’Isola.

Le precarie condizioni economiche della Sicilia erano aggravate dalla presenza di forze sociali pronte ad esplodere in presenza di un qualsiasi fattore scatenante. Nel 1837 esso fu un’epidemia di colera, che l’ignoranza popolare attribuì ad avvelenatori mandati dal governo, convinzione avallata anche dall’arcivescovo di Palermo e da professori di università, forse perchè la malattia non era mai apparsa prima di allora nell’Europa occidentale. Le città si svuotarono ed i villaggi ostruirono le vie di accesso nel tentativo di difendersi dal contagio, mentre bande di contadini invadevano le città in cerca di bottino e, nel panico generale, i sospettati di propagare il contagio venivano linciati. Il morbo, manifestatosi inizialmente a Palermo, uccise in Sicilia circa 69.000 abitanti su una popolazione di poco meno di 2 milioni.

In coincidenza con l’epidemia scoppiarono tumulti a Messina, Catania, Siracusa, Palermo, supportati da voci che attribuivano al governo la diffusione del morbo, o quanto meno sottolineavano la sua inattività nella fase dell’incubazione. Catania e Siracusa furono le città piu’ turbolente, mentre Palermo rimase relativamente tranquilla. A Siracusa la violenza fu diretta contro gli stranieri in generale, ma presto essa degenerò e le città furono invase da bande di criminali, mentre i contadini si rivoltavano contro i gabelloti.

Catania, dichiaratasi indipendente all’insegna della bandiera gialla, formò un comitato rivoluzionario; cercò anche di fomentare la rivolta per l’indipendenza nelle altre città, ma il cordone sanitario ostacolava le comunicazioni. I nobili aderirono alla rivoluzione indipendentista, ma ben presto constatarono il loro isolamento e, paventando il rischio di una rivoluzione sociale e l’intervento controrivoluzionario borbonico, abbandonarono i loro alleati radicali e plebei, contro i quali usarono anche la violenza, e salutarono con sollievo il ritorno delle truppe svizzere. Da Napoli fu inviato in Sicilia con poteri eccezionali il generale Del Carretto, che vi rimase tre mesi ristabilendovi l’ordine.

L’anno seguente Ferdinando II si recò personalmente in Sicilia per comprendere i motivi dell’irrequietudine popolare e si rese conto che le leggi di riforma agraria esistenti non erano mai state applicate, ma, al contrario, si continuavano a pretendere tributi feudali e corvées anche dopo l’abolizione della feudalità. Le leggi promulgate dal vicerè Caramanico cinquant’anni prima non erano mai state rese operanti e il censimento della terra deciso venticinque anni prima era ancora incompleto quasi ovunque, non solo per la mancanza di funzionari efficienti, ma anche per le pressioni dei notabili, decisi ad aggirare la legge. Vaste estensioni di terra rimanevano, quindi, incolte, mentre la presenza di bande di malviventi paralizzava il commercio e l’agricoltura.

Ferdinando decise di formare, innanzitutto, una classe di efficienti funzionari amministrativi ed a tal fine fece riaprire l’Università di Messina, che doveva provvedere alla loro formazione, assegnandole congrui finanziamenti. Dal momento che i Siciliani avevano dimostrato la loro inefficienza come amministratori, il re strinse i freni con la legge sulla promiscuità degli impieghi, che aboliva il vincolo dell’attribuzione degli impieghi in Sicilia ai soli Siciliani e stabiliva, teoricamente, la mobilità di tutti i cittadini in tutto il regno; abolì, inoltre, il ministero napoletano degli "Affari di Sicilia" e l’analogo istituto palermitano. Il primo provvedimento mirava a sottrarre i pubblici amministratori all’influsso dei notabili locali, determinato anche da relazioni di parentela. Esso fu gravido di conseguenze perchè determinò il trasferimento in Sicilia di molti funzionari napoletani, mentre vennero trasferiti a Napoli funzionari scomodi come il grande storico Michele Amari. Il re era ben deciso ad eliminare la corruzione ed il nepotismo, che erano alla base dell’inefficienza burocratica, con la creazione di una classe di funzionari provenienti da Napoli o, comunque, reclutati mediante pubblici concorsi, che ne accertassero le capacità.

Per alleviare la situazione di disagio economico delle classi più povere Ferdinando ridusse l’imposta sul macinato e, per compensare la conseguente diminuzione del gettito fiscale, aumentò l’imposta fondiaria ed impose un tributo ai proprietari delle miniere, mentre per incrementare il commercio e l’industria furono istituite banche pubbliche a Messina e Palermo e furono firmati trattati commerciali con paesi esteri. Questi provvedimenti furono bene accolti dalla maggior parte dei Siciliani, ma vi fu anche il malumore di chi vedeva lesi i suoi privilegi, soprattutto riguardo alla riforma agraria, mirata a conseguire l’equilibrio e la pace sociale ed a migliorare il livello qualitativo dell’agricoltura.