Nell’aprile del 1517 assunse le funzioni di Luogotenente del regno Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, che venne guardato con diffidenza dalle comunità cittadine, anche quando emise provvedimenti di clemenza.
I nemici del deposto vicerè Moncada, capeggiati da Giovan Luca Squarcialupo, dettero vita ad una congiura antinobiliare, che fece strage dei sostenitori del Moncada. La rivolta, partita da Palermo, dilagò a Termini, Trapani, Catania, Agrigento. Squarcialupo e gli altri capi della rivolta, mentre erano riuniti a Palermo nella chiesa dell’Annunziata per redigere i capitoli della riforma del regno, furono trucidati a tradimento da un gruppo di nobili guidati da Guglielmo Ventimiglia, barone di Ciminna.
Nel gennaio del 1518 sbarcarono a Messina 5.000 soldati e 1.200 cavalieri spagnoli, che riportarono l’ordine nell’isola, ponendo fine alla sollevazione delle città. Il conte di Monteleone fu nominato vicerè e riuscì a ricompattare il fronte aristocratico.
Un altro momento di crisi nei rapporti tra nobili e città si ebbe uando il conte di Cammarata, che era un sostenitore dei consigli municipali, alla vigilia del Parlamento di Palermo dell’aprile 1522, nel tentativo di riaprire la spaccatura del fronte aristocratico realizzando un’alleanza parlamentare con le città demaniali, propose che il donativo al re fosse pagato non più dalle città che erano impoverite, ma dai nobili. La proposta metteva in fermento sia le città, che i nobili, ed il Monteleone, per prendere tempo, rinviò al mese di giugno l’apertura del Parlamento, che fu spostato a Messina per motivi di sicurezza. Il Cammarata fu arrestato, insieme al tesoriere Leofante, e trasferito a Napoli. Quando si scoprì che i due facevano parte di una congiura filo-francese diretta dal cardinale F. Soderini, che preparava l’intervento in Sicilia del re di Francia Francesco I, furono giustiziati al loro ritorno in Sicilia nel 1523.
Si chiudeva, così, con la vittoria del blocco nobiliare il lungo periodo di crisi iniziato nel 1511, che aveva visto il lungo braccio di ferro tra nobili e consigli municipali. Questi ultimi entrarono in crisi, con conseguente svuotamento dell’istituto parlamentare, dove i rappresentanti delle città non erano altro che delle stanche comparse. Si rafforzarono, invece, le magistrature cittadine, spesso nelle mani di nobili, che sempre più spesso preferivano trasferirsi in città.
Il rapporto città demaniali-campagna si risolse a favore di quest’ultima, che soffocava e dominava la città, dove i ceti urbani non avevano più un ruolo significativo. Erano ormai lontani anni luce i tempi del re aragonese Martino I, che aveva rivalutato le istituzioni cittadine nei confronti della nobiltà riottosa; il vicerè Monteleone aveva, comunque, dato alla Sicilia un assetto che si sarebbe rivelato solido e che avrebbe caratterizzato la politica siciliana di tutto il XVI secolo.