Per due anni (1410-1412) gli stati della corona d’Aragona rimasero senza re: Aragona, Catalogna, Valenza, Maiorca, Sicilia, Sardegna mostrarono come la loro federazione fosse tenuta insieme esclusivamente dalla persona del sovrano.
Papa Giovanni XXIII
La Sardegna, con l’aiuto di Genova, continuava con rinnovata energia, dopo la morte di Martino II, la lotta contro gli iberici, che chiesero ripetutamente, ma inutilmente, aiuti alla madrepatria, infatti il parlamento catalano prese le distanze dalla situazione delle due isole, mettendo a nudo la reale situazione degli stati della corona d’Aragona, che non avevano mai costituito un regno coeso, ma restavano entità autonome, soprattutto in mancanza del re. La Sicilia più della Sardegna visse tragicamente questi due anni di interregno, durante cui le fazioni in lotta dispersero le loro forze, che andavano, invece, convogliate verso l’obiettivo della costituzione di un regno autonomo di Sicilia. Nobili indigeni e nobili catalani si abbandonarono alle rivalità, ai dissidi, ai rancori, perdendo di vista l’esigenza di costituire un centro propulsore, che desse vita ad un regno.
La nobiltà isolana era divisa in due fazioni ed in entrambe prevalevano gli iberici, dal momento che i nobili siciliani erano stati da tempo esiliati e dispersi. Una fazione faceva capo a Bianca di Navarra, vedova di Martino I, confermata dal suocero vicaria del regno di Sicilia. La coadiuvavano nell’attività di governo Sancio Ruiz de Lihori, i baroni di Sinagra, Ficarra, Castania e S. Pietro, Corrado Lancia, Angelo ed Anastasio di Taranto, Berengario di Rolis, Ruggero Pollicino, Miano Rosso, Bartolomeo de Juvenio ed Antonino Ventimiglia. L’altra fazione era capeggiata dal gran giustiziere Bernardo Cabrera, affiancato dalla maggior parte della nobiltà catalana, il quale rivendicava il diritto di reggenza che gli derivava, secondo la tesi da lui sostenuta, dalla carica ricoperta, che era la più alta del regno e lo investiva di poteri eccezionali in assenza del re.
Gli interessi dell’Aragona non erano, comunque, in gioco, al di là degli interessi particolaristici, dal momento che in entrambe le fazioni prevaleva l’elemento aragonese. Le forze di opposizione siciliane non erano più rappresentate dagli antichi baroni locali, ormai tutti in esilio, tra i quali soltanto Artale d’Alagona tentava ancora il ritorno in Sicilia con il sostegno di Genova, ma erano le borghesie cittadine a contrapporsi alle fazioni aragonesi. Tra le città prevaleva un gretto spirito municipalistico, che le spingeva le une contro le altre, volte com’erano alla ricerca di posizioni egemoniche, soprattutto le maggiori di esse. Si può, quindi, ben dire che protagoniste della politica siciliana dell’interregno furono le due fazioni iberiche, mentre l’elemento siculo rimase in secondo piano. Per quanto riguarda le città, si contendevano il primato in Sicilia, Messina, che sosteneva la regina Bianca, e Palermo, che sosteneva il gran giustiziere Bernardo Cabrera.
Rivendicava un ruolo egemone in concorrenza con le prime due Trapani, nel cui porto si concentravano i traffici commerciali con l’Aragona, mentre Catania si fregiava del ruolo centrale rivestito durante la spedizione aragonese. In realtà, però, nè la regina Bianca, nè Bernardo Cabrera intendevano porsi a capo del movimento siciliano condividendone gli obiettivi, ma volevano soltanto sfruttarlo ai fini della loro personale affermazione, puntando sulle ambizioni municipalistiche, che spingevano le città a parteggiare per una delle due fazioni aragonesi, ignorando i reali interessi generali del regno.
Sia la fazione capeggiata dalla regina Bianca, che quella capeggiata dal gran giustiziere Bernardo Cabrera avevano lo stesso programma: conservare la Sicilia alla casa aragonese e mettere ordine e pace tra le fazioni in lotta. Bernardo Cabrera era sostenuto dalla maggior parte dei baroni catalani con in testa Artale di Luna, principe di Caltabellotta; la vicaria era sostenuta da altri baroni con a capo il grande ammiraglio Sancio Ruiz de Lihori. Le città siciliane sostenevano or l’una or l’altra fazione, cambiando bandiera secondo gli interessi del momento. Il loro ruolo, anche se inaffidabile, aveva, però, grande peso.
La prima città ad insorgere contro la regina Bianca fu Siracusa, prontamente sostenuta dal Cabrera, che pose l’assedio al castello Marchetto, dove si trovava la vicaria. In soccorso alla regina vennero i palermitani e Giovanni Moncada, che liberarono la regina e la portarono a Palermo, città che si era anch’essa ribellata e che si era fatta promotrice di un progetto di matrimonio tra Bianca e Nicola Peralta, discendente della casa reale d’Aragona. Essi pensavano, così, di accontentare da un lato gli Aragonesi e di dare vita, dall’altro, ad un regno di Sicilia autonomo. Il progetto ebbe la recisa opposizione della vicaria.
Dietro sollecitazione del re di Navarra, padre di Bianca, e dell’antipapa Benedetto XIII il parlamento di Catalogna mandò in Sicilia nel gennaio del 1411 un’ambasceria con il ruolo di mediatrice di pace, sottolineando la funzione di pura e semplice cortesia nei confronti del papa e del re di Navarra e ribadendo sostanzialmente il disinteresse nei confronti dell’isola, ma il suo intervento non sortì alcun effetto. In Sicilia dilagava la guerra civile e la vicaria Bianca, resasi conto della precarietà della sua posizione, cercò di prendere tempo almeno sino alla nomina del nuovo re d’Aragona e propose al Cabrera di trovare un accordo. Questi oppose un netto rifiuto e Bianca tentò la via dello scontro, che avvenne presso Agrigento nel maggio del 1411 e che la vide sconfitta.
Si inserisce a questo punto l’iniziativa della città di Messina, che aveva sempre manifestato spirito di indipendenza, diretto, però, all’affermazione dei suoi interessi politici ed economici, più che degli interessi generali della Sicilia. Essa, volendo anche controbilanciare il ruolo egemone della città di Palermo e riprendere nelle sue mani le fila della politica siciliana, propose la convocazione di un parlamento generale, che affrontasse, per risolverli, i problemi della Sicilia. L’iniziativa venne accolta favorevolmente sia dalla vicaria Bianca, sia dal Cabrera, ed avrebbe potuto dare risultati positivi, se non fossero intervenute a vanificarla le rivalità municipalistiche.
La proposta ebbe inizialmente il favore di tutte le città, ma la peste scoppiata a Messina ritardò la convocazione del parlamento e iniziarono le defezioni, innanzitutto quella di Bernardo Cabrera, che si rese conto che la città parteggiava per Bianca. Il parlamento si aprì, comunque, a Taormina nell’agosto del 1411, nonostante la partecipazione dei Siciliani non fosse unanime. Catania, Siracusa, Agrigento e Trapani non inviarono i loro rappresentanti, contestando il ruolo egemone della città di Messina, e il parlamento fu un vero fallimento. La rinuncia al vicariato da parte di Bianca in favore di un consiglio di siciliani da lei presieduto, in cui sarebbero state rappresentate tutte le città della Sicilia, anche quelle dissidenti, e la decisione di eleggere un re di stirpe aragonese per la sola Sicilia manifestavano la volontà di perseguire la pacificazione generale e di affrontare la questione dinastica.
Il prevalere degli interessi messinesi nella composizione del consiglio (Messina doveva avere sei rappresentanti, Palermo e Catania due ciascuna, Siracusa, Agrigento e Trapani uno ciascuno) e la posizione di preminenza di Bianca di Navarra fecero riesplodere la ribellione del Cabrera, che riprese le armi, ma fu sconfitto presso Palermo nell’ottobre del 1411 dalle truppe di Bianca. Nè partì mai l’ambasceria che doveva chiedere all’Aragona un re per la Sicilia. La Sicilia occidentale, capeggiata da Trapani, dette la propria adesione a Bianca e costituì una lega contro il Cabrera. Era la risposta al tentativo di egemonia di Messina, ma era anche la manifestazione di un frazionamento esiziale per la Sicilia.
Intanto nella penisola iberica, dove ancora non era stato risolto il problema dinastico del regno d’Aragona, si guardava con preoccupazione alla situazione siciliana, ed il parlamento di Catalogna inviò in Sicilia nel gennaio del 1412 un’ambasceria per sistemare la situazione. Sia Bianca che il Cabrera collaborarono con i messi aragonesi e l’accordo fu raggiunto anche con l’intervento del pontefice Giovanni XXIII.
A Solanto il 6 maggio 1412 convennero per Bianca di Navarra Antonio Moncada, Calcerando di Santapau, Enrico Rosso e Sancio Ruiz de Lihori; per il Cabrera Arcimbao di Foix e Artale di Luna. L’accordo raggiunto prevedeva che Bianca si ritirasse a vita privata nel castello Ursino di Catania, e che il Cabrera assumesse il governo del regno, che rimaneva legato alla corona d’Aragona.
Nonostante l’accordo fosse stato firmato, i sostenitori della regina riaccesero la guerra civile, ma, mentre le fortune della vicaria risalivano, il convegno di Caspe, città della Spagna in provincia di Saragozza (20 marzo – 28 giugno 1412) eleggeva re d’Aragona e di Sicilia Ferdinando di Antequera, infante del regno di Castiglia, ponendo fine alla speranza di un regno autonomo di Sicilia e vanificando le ragioni della guerra civile.
La candidatura di Federico di Luna, figlio naturale di Martino I, che era sostenuta dai Siciliani, non fu tenuta in nessuna considerazione, anche perchè il particolarismo municipalistico, le discordie intestine, il frazionamento delle forze politiche siciliane non avevano saputo sostenerla. A Caspe i pretendenti al trono d’Aragona Luigi di Calabria, Ferdinando di Castiglia e Giacomo di Urgel avevano messo fuori gioco il conte siciliano appellandosi alle leggi che vietavano la successione in linea femminile e quella dei figli naturali. Prevalse la candidatura di Ferdinando di Castiglia anche per l’apprezzamento delle sue qualità personali imposto dall’autorità di (San) Vincenzo Ferrer. La sua elezione fu favorevolmente accolta dall’Aragona, mentre la Catalogna subiva lo smacco di vedere scartato il proprio candidato, Giacomo di Urgel.