Il contesto socio-culturale in cui maturarono in Sicilia gli avvenimenti politici del ‘500 fu caratterizzato da elementi che suscitavano gravi timori e recavano turbamenti e sofferenze.

CARLO V

Un’altra circostanza che generò timori e difficoltà in Sicilia fu la conquista dell’isola di Rodi da parte dei Turchi il 25 luglio del 1523, e suscitò un’emozione profonda l’arrivo a Catania del Gran Maestro dei cavalieri di quell’isola. Aumentò il timore di incursioni barbaresche, nonche’ di eventuale conquista delle fertili e pianeggianti coste siciliane da parte dei Turchi.I Siciliani, che pure avevano visto nella loro terra scontri efferati tra fazioni, avevano un tremendo ancestrale timore della violenza degli infedeli, diretta più alla violazione di culti e di affetti, che allo scontro fisico.Eppure i Siciliani ben conoscevano le violenze della lotta endemica tra fazioni, che in parte continuò anche dopo la pacificazione successiva al 1522.

Ne è un esempio lo scontro a Sciacca tra i Luna, signori di Caltabellotta, esponenti del gruppo nobiliare in passato fedele alla politica del Moncada, ed il gruppo di piccoli nobili di estrazione mercantile capeggiati da Giacomo Perollo, portolano e console dei Genovesi, legato ai Ventimiglia di Geraci ed ai Tagliavia di Castelvetrano. L’episodio è emblematico delle tensioni esistenti in varie zone della Sicilia tra la nobiltà feudale e la piccola nobiltà di estrazione mercantile, che deteneva il controllo delle città.

I Luna aspiravano ad avere insieme il controllo economico della fertile pianura di Sciacca ed il controllo politico della città, che invece aspirava ad estendere il suo controllo sul contado. Sigismondo Luna, servendosi di una "masnada" di ex-soldati di varia provenienza, mise a sacco Sciacca con metodi efferati e crudeli, tipici del banditismo. Toccò al vicerè Monteleone chiudere l’episodio ricomponendo con mediazioni e compromessi il fronte nobiliare, che evidenziava una certa fragilità nonostante la pacificazione del 1522.I gruppi dirigenti della Sicilia non erano ancora toccati dalla ideologia di dimensione imperiale della politica di Carlo V, e non lo furono neanche quando Carlo V stesso visitò la Sicilia nel 1535. In questi frangenti il popolo viveva una condizione di insicurezza e di precarietà, determinata dalla mancanza della certezza della legge, che il re non riusciva a rappresentare, e dalla mancanza di strumenti di solidarietà sociale, che esorcizzassero lo spettro della miseria.

In questo terreno attecchivano con facilità i vecchi temi del profetismo medioevale, con l’attesa della fine del mondo, vista come una punizione divina. La crescente domanda del divino trovava un’eco nell’esortazione alla penitenza da parte dei predicatori, che, però, accresceva le ansie e le paure in assenza di una corretta catechizzazione, che sconfiggesse l’ignoranza.Il papa era contro il profetismo penitenziale ed aveva anche chiesto l’appoggio dell’imperatore Carlo V per proibirne la diffusione, ma, nonostante ciò, esso proliferava, e tra il 1520 ed il 1524 in Sicilia, come in Spagna, si fece spasmodica l’attesa di un diluvio universale. Alla data prevista non accadde nulla, ma le piogge torrenziali del mese di novembre a Messina e dintorni furono viste come un segno premonitore.