Il clero della Sicilia spagnola si presentava disorganizzato, di scarso livello morale privato, colluso con le oligarchie locali, ma deciso ad affermare la propria autorità all’interno della Chiesa.
La religiosità della Sicilia del ‘500 era caratterizzata da un sincretismo magico-religioso, dal quale non erano indenni anche i ceti medio-alti e che la Chiesa cattolica contribuiva, a volte, a supportare con la sua demologia.Il personaggio del "romito", cioè del vecchio che andava di terra in terra recitando orazioni e formule propiziatorie o di scongiuro, era considerato dal clero cattolico dotato di poteri che non erano nè divini, nè naturali, e che, quindi, erano demoniaci.
Non era infrequente il caso, soprattutto nelle campagne, di riti malefici compiuti con l’impiego di olio santo e di ostie consacrate, con una evidente contaminazione tra sacro e magico tipica della cultura popolare. La Chiesa cattolica non contribuiva a far chiarezza quando attribuiva al demonio presunti fenomeni magici, come si può riscontrare in alcuni scritti del domenicano Tommaso Fazello, convinto fautore di questa demonologia, che in questa chiave spiegava anche fenomeni inesistenti, ma dovuti all’illusione dei sensi.
Chiesa e scienza erano ben lontane dall’incontrarsi e le concezioni scientifiche cattoliche non escludevano fenomeni come la "fattura", il "malocchio" ed altre magie, che erano da attribuire al demonio.Superstizione e religiosità convivevano e si coalizzavano contro il sacrilegio, aborrito da entrambe: il rogo era la punizione del sacrilego. La Chiesa di Roma aveva un atteggiamento acquiescente nei confronti della Spagna, del cui aiuto politico aveva bisogno, così come aveva bisogno del grano siciliano, che i vicerè inviavano a Roma a condizioni particolarmente vantaggiose.
I prelati siciliani si sentivano, quindi, più dipendenti dalla Spagna che da Roma, d’altronde il re di Spagna conferiva le alte cariche ecclesiastiche a stranieri più spesso che a Siciliani. Questi amavano risiedere più spesso all’estero che in Sicilia, determinando, così, una frattura tra alto e basso a clero e distraendo dalla Sicilia le risorse economiche dei loro feudi. La Chiesa siciliana era, comunque, tenuta a freno dalla Spagna mediante l’Inquisizione, che dipendeva direttamente dalla Spagna e che aveva persino il potere di neutralizzare l’azione del vicerè.
I suoi componenti godevano, inoltre, dell’immunità dalla giurisdizione dei tribunali ordinari anche per i reati gravi, e dal momento che anche i laici potevano farne parte, in qualità di assistenti o familiari, molti nobili riuscirono ad entrarvi e poterono , così, armare impunemente bande di delinquenti. Vivaci erano le proteste dei vicerè, ma il re di Spagna lasciò sempre intatta l’organizzazione autoritari dell’Inquisizione, che era efficace strumento di governo con la paura che incuteva ed era tanto più utile quanto più esiguo era il numero dei militari spagnoli di stanza in Sicilia; la Spagna reclutava, infatti, i Siciliani per tenere sottomessi altri Siciliani.
Numerosi erano gli abusi di questo organismo, che era estremamente ricco, perchè confiscava i beni degli eretici condannati.Agli accusatori, ai quali garantiva l’anonimato, veniva dato un decimo dei beni confiscati al condannato, con un evidente incentivo alla delazione, spesso assolutamente priva di fondamento. Solo dopo il 1590 il re si rese conto che questa istituzione si arricchiva illecitamente e contrastava con la sua potenza l’azione dei vicerè, e da allora in poi l’Inquisizione non potè più giudicare i baroni, gli esattori delle imposte e qualsiasi altra persona coinvolta negli affari pubblici.
Il ruolo del Sant’Uffizio in Sicilia da questo momento in poi fu ridimensionato e fu restituita ai tribunali reali la competenza a giudicare persino coloro che rivestivano le più alte cariche nel Sant’Uffizio nel caso di omicidi o di delitti che riguardassero il bene pubblico.