La cultura della zolfara si respirava nell’aria, oggi per la maggior parte della gente essa è caduta nel dimenticatoio
Leonardo Sciascia, uno dei più grandi autori di testi sulle miniere di zolfo in Sicilia
La cultura della zolfara oggi è quasi del tutto sconosciuta; se non ci fossero gli impianti, spesso fatiscenti, ad attirare gli interessi degli studiosi, oggi non si parlerebbe più di miniere, di minatori, di “carusi” e di tutto quello che ha a che fare con l’estrazione dello zolfo, col modo di vivere degli zolfatai, con i loro rapporti sociali sul luogo di lavoro, col loro modo di pensare.
Una volta la cultura della zolfara si respirava nell’aria, oggi per la maggior parte della gente essa è caduta nel dimenticatoio. Non è possibile trattare quel mondo come se non fosse mai esistito; l’estrazione dello zolfo ha dato da vivere a moltitudini di persone e a moltitudini di persone ha tolto la vita, è stata l’asse portante dell’economia siciliana e italiana per quasi due secoli, un’economia che ha fatto focalizzare l’attenzione di tutti i paesi in via di industrializzazione sulla piccola grande isola del Mediterraneo.
“La zolfara non esiste più. Rimangono echi, come segnali su piste abbandonate, a renderci conto di quello che la zolfara (o solfatara, come una volta veniva denominata) è stata nelle sue valenze antropologiche, sociali, psicologiche: e quello che essa comportò di infelicità, di umiliazione, e pure di intraprese, di avventura umana, di esodi spavaldi e disperati, di bassezze e di coraggio, di prepotenze e di arroganze, di ricchezze rapide, di crisi, di abominevoli sfruttamenti (…). Ormai non esiste. Spenglerianamente è una forma morta, un simbolo dunque, remota immagine di un processo e di una deiezione. Restano di essa le narrazioni, le cronache, le analisi, ricordi, memorie; la scrittura, cioè. In definitiva la parola. La quale quasi mai è adeguabile alla cosa. Essa va al di là, diventa iperbole, figura, allegoria, o ne resta al di qua rispetto a una realtà inenarrabile.”
Parole quindi, in gergo, in prosa, in poesia, ma fortunatamente anche immagini, sotto forma di fotografie e più raramente di pittura; letteratura e pittura, “maggiore e minore” che da sempre ha accompagnato, e si spera accompagnerà sempre, il mondo degli zolfatai.
La produzione letteraria riguardante la cultura dello zolfo è abbastanza vasta; non ci si limita infatti ad analizzare la letteratura maggiore, quella classica, per intenderci, di Pirandello, Sciascia e Rosso di San Secondo, ma anche quella di autori locali, che hanno vissuto direttamente il mondo della zolfara, di viaggiatori, come Gastone Vuillier, che l’hanno vista una sola volta e ne sono rimasti colpiti, lasciandoci pagine e immagini memorabili.
Le stesse poesie, i canti, i motti recitati dai minatori nella loro vita quotidiana costituiscono un bagaglio letterario di grandissima importanza.
Luigi Pirandello, espressione della borghesia agrigentina, vive la zolfara con distacco per trovare solo occasionalmente una sorta di pietà per la gente delle zolfare nella novella “Ciaula scopre la luna“.
In un’altra opera, “il fumo“, egli traccia, per bocca del personaggio Mattia Scala, una sorta di fenomenologia negativa della zolfara, legata allo sconvolgimento ambientale che questa provoca:
“Ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingoiarselo: ci tirano una bella fischiata e addio! (…)
Ogni tanto si incontrano, intendi a salire la ripida scaletta, gruppi di bambini, carichi di cestini. Ansimano e rantolano, i poveri “carusi” schiacciati sotto il fardello. Hanno dieci, dodici anni, e rifanno quindici volte in un solo giorno l’abominevole viaggio, al prezzo di un soldo per ogni discesa. Sono piccoli, magri, giallastri, con occhi enormi e lucenti, e visi smunti dalle labbra sottili che mostrano i denti, brillanti con i loro sguardi. Questo sfruttamento rivoltante dell’infanzia è una delle cose più penose che si possano vedere.
Tratto da: De Maupassant G., Viaggio in Sicilia, Ristampa, Palermo 1992
E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qui, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagna bruciate dal fumo“.
Il fumo, elemento determinante della novella, diviene mezzo di distruzione, ma anche di vendetta e non soltanto nell’opera di Pirandello: certi gesti, come quello di dar fuoco alla zolfara, rappresentavano la rivolta verso il padrone.
Con Verga è Luciano, capomastro e genero del proprietario, che accenna all’incendio della zolfara: “Piuttosto, vi appicco il fuoco con le mie mani stesse” dice ad un tratto, mentre è in lite con i suoi stessi compagni di lotta. Il personaggio Vanni, nel romanzo “la Zolfara” di Giusti Sinopoli, dopo aver ucciso il suo nemico e rivale con il coltello, darà fuoco alla zolfara.
Anche Antonio Aniante, nel romanzo “La rosa di zolfo“, accenna all’incendio della zolfara, che distoglie l’attenzione dalla morte del personaggio Colao: “Muore Colao, ma la zolfara brucia“.
Fortunatamente gli incendi costituivano soltanto una parentesi della vita delle zolfare; la quotidianità e la monotonia del lavoro si esprimevano insieme alla pericolosità nel sottosuolo, in quelle gallerie che Verga definisce “tane da lupi” e nelle quali l’autore fa smarrire per sempre Rosso Malpelo:
“Così si persero perfino le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhi grigi“.
Sono le gallerie dalle quali Louise Hamilton, nei primi del ‘900, vide uscire i “carusi”: “Salgono in triste processione, procedendo con difficoltà su per gli scalini scavati nella terra (…) Curvi sotto il peso, la faccia e il petto coperti di sudore (…) emergono dalle tenebre della miniera verso la luce del sole“.
A proposito della Hamilton, è abbastanza singolare la similitudine che tanto la scrittrice quanto Pirandello intravedono tra lo zolfo e l’oro. Pirandello in una novella scrive: “Risplende come oro lo zolfo accatastato sulla cupa spiaggia“. A sua volta la Hamilton scrive: “Di notte meravigliose fiamme azzurre sprizzano dai calcaroni, mentre fluisce il liquido d’oro sotto gli occhi attenti degli arditori“.
Ma quest’ultima dice di vedere lo zolfo nella sua forma liquida e peraltro di notte e quindi, se la similitudine viene operata, è perché si va oltre il colore; lo zolfo è merce, realtà economica alla stregua dell’oro. Ciascuno misura se stesso in rapporto allo zolfo; ognuno è servo o padrone in funzione delle proprietà che possiede e in questo caso la proprietà coincide con la zolfara.
È il divario che fa riflettere Paolo, il protagonista de “La miniera occupata“, un romanzo di Angelo Petix: “Uomini sono loro e uomo sono io; pensano e soffrono loro, penso e soffro io. Pure (…) per loro io non sono che una bestia da soma, uno schiavo“.
Torniamo a riveder le stelle: Incisione di Gastone Vuillier.
Tratto da: Vuillier G., La Sicilia, impressioni del presente e del passato, Milano 1897
La condizione di schiavitù è più di un’immagine, è uno stato d’animo che trapela dagli zolfatai e colpisce la sensibilità di chi come lo scrittore nisseno Calogero Bonavia li vede andare in processione verso la miniera, definendoli “i servi dell’uomo“, nella pagina che vale la pena di rileggere per intero:
“Una notte – avevo lasciato una finestra aperta – un lampo entrò nella mia stanza.
Dio mi chiama – dissi – poiché sapevo che i lampi sono parole di Dio. E mi levai prestamente.
Un’altra bianca fiammata venne ad abbagliarmi gli occhi.
Dissi – Forse gli angeli passano giù per la via. E m’affacciai.
Lungi, nella campagna nera, splendeva una catena di lampade.
Erano figli d’uomini, erano i servi dell’uomo, quelli che conoscono l’alba, erano quelli che non comprano il pane, ma lo scavano sotterra con affanno, tra i macigni di gesso e di zolfo.
I servi camminano nella notte – pensai – perché innanzi a loro sta il Pane.
I servi camminano soli nelle tenebre, perché innanzi a loro sta l’Alba.
Da allora non temo le tenebre, e cammino solo nella notte, sicuro che tu mi stai innanzi, o Signore – come a tutti i servi – col Pane e col Calice“.
Molto commovente, a proposito di servitù, è la similitudine tra asini e zolfatai fatta da Sebastiano Addamo: “Asini. Uomini. Perduti in un fondo di tenebre dove lo stesso lavoro è tenebre“.
È la stessa similitudine che trapela dalle parole di Giovanni Verga: “Asini che lavorano nelle cave per anni e anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco, ci si calan con le funi e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, ma per il lavoro che faranno laggiù sono ancora buoni“.
Condizioni degli uomini e degli asini sono molto simile, se paragoniamo le parole del Verga a quelle di Leonardo Sciascia:
“Mio nonno era stato caruso, uno di quei ragazzini che nelle zolfare siciliane venivano adibiti al trasporto del materiale. Era entrato in miniera all’età di nove anni, alla morte del padre, e vi restò fino alla fine dei suoi giorni“.
Restare fino alla fine dei propri giorni a lavorare in miniera non significava necessariamente diventare vecchi; gli incidenti in miniera erano frequenti, dovuti ad esplosioni, crolli e incendi, e lo stesso lavoro all’esterno era molto pericoloso per le esalazioni di anidride solforosa; la facilità con cui si poteva rimanere coinvolti in un incidente spaventava molto gli zolfatai, ma allo stesso tempo essi erano rassegnati, pronti ad accettare il destino.
Di Alessio Di Giovanni è il dramma “Gabrieli lu carusu“, che vuole essere la rappresentazione del modo di vivere e di sentire degli uomini della zolfara, che vivono dentro e attorno ad essa, dove il destino è sentito come cieca e arbitraria forza cui rassegnarsi. “S’è distinatu c’hai a muriri scacciatu”, dice Gabriele. È un presentimento, egli morirà schiacciato da un vagoncino da miniera, adempiendo così il destino da lui stesso preconizzato.
Anche Sciascia ci parla di incidenti avvenuti nella zolfara, precisamente ne “L’antimonio“, raccontandoci la vicenda di uno zolfataro scampato ad un incendio nella miniera dove lavorava:
“Così anche dopo che uscii dalla bocca della zolfara, scalzo e nudo errai per la campagna finchè non sentii il cuore che mi schiantava“.
Egli decide allora di non ritornare più nella miniera e di partire volontario per la guerra di Spagna:
“La zolfara mi faceva paura, al confronto la guerra di Spagna mi pareva una scampagnata” (Sciascia L., L’Antimonio, sta in Opere, Milano 1987, pp. 337 e 338).
Il rifiuto verso la sua difficilissima condizione di lavoratore porta lo zolfataro ad essere il più possibile curato nel suo aspetto fisico, ricercato nel vestire, spavaldo, gentile, totalmente differente da quello che egli diviene nella zolfara.
Finalmente si riposavano: Incisione di Gastone Vuillier.
Tratto da: Vuillier G., La Sicilia, impressioni del presente e del passato, Milano 1897
Rosso di San Secondo è di Caltanissetta e conosce benissimo la condizione degli zolfatari. Ne “La bella addormentata” egli cerca di dipingere con le parole un ritratto dello zolfataro che si spinge oltre l’aspetto fisico:
“Bocca serrata e occhio pungente; corta la capigliatura e bene impomatata, con la divisa a manca e un piccolissimo ghiribizzo a metà della fronte; nemmeno un pelo di barba, dentatura lucente, naso che fiuta e non sta un momento fermo! Discorsi sì, con filosofia e sentimento, con o senza bicchiere; ma d’ordinario poco parlare e azzeccato: ascoltare assai, e soprattutto essere cavaliere con la bella e i gentiluomini di sangue. Per gli altri non c’è udienza: o, passando, una sprizzatina di salivazione. La giustizia farsela da sé“.
Lo zolfataro viene colto fuori dalla miniera, quel che egli diviene durante il tempo libero; sembra quasi che nell’esaltazione della forma lo zolfataro voglia annegare la violenza e la tristezza di un’esistenza sperduta tra i labirinti del sottosuolo:
“Come lo zolfo che è chiaro in superficie e nero sottoterra, lo zolfataro assume l’aspetto diurno del bianco e del pulito. Più che un fenomeno di rimozione, è una presa di posizione, la metamorfosi che lo zolfataro realizza, un discrimine disperato di sé con sé“.
Il giallo dello zolfo era il carattere predominante, il segno di riconoscimento di un territorio sfruttato fino all’estremo. Il tema del giallo del paesaggio, di questo colore dominante nella geografia della Sicilia centrale, viene affrontato da molti scrittori come Guido Piovene: “Il colore dello zolfo è diffuso dovunque, quasi che tra noi e il paesaggio vi fosse l’invisibile schermo di un vetro giallo” (Piovene Guido, Viaggio in Italia, Milano 1966); anche di notte, quando il buio nasconde i colori, i calcheroni bruciavano, tingendo il paesaggio di un chiarore visibile in lontananza: “Dietro le colline, in fondo, vedevasi un chiarore rosso, quasi fosse il tempo che si dava fuoco alle stoppie” (Verga); ma il paesaggio non è solo colore, di esso fanno parte i segni del lavoro, gli sbancamenti, le montagne sventrate, gli accumuli di materiale, come li descrive Alessio Di Giovanni:
“Nacqui dunque nel cuore della Sicilia, in un paese solatio, affondato, nella bella stagione, tra il verde delle vigne e dei mandorli. Attorno a codesto verde, immaginate una cerchia di montagne brulle nella lontananza remota e, più vicino, la zolfara arsa e fumosa, i mucchi azzurrognoli di ginidi, la sconfinata distesa dei latifondi malinconici e deserti, che velano ogni cosa di una tristezza arcana e tragica” (Alessio Di Giovanni).
È lo stesso paesaggio descritto da due famosi viaggiatori stranieri; il primo, Guy de Maupassant, visita le miniere dell’agrigentino:
“Andiamo quindi a visitare le miniere di zolfo. Penetriamo in mezzo alle montagne. Davanti a noi, un vero paese di desolazione, una misera terra che pare maledetta, condannata dalla natura. Le vallate si aprono, grigie, gialle, pietrose, sinistre, recanti il marchio della riprovazione divina, con un superbo carattere di solitudine e di povertà” (Guy de Maupassant, Viaggio in Sicilia).
Il secondo Gastone Vuillier, descrive invece le miniere del bacino solfifero nisseno:
“Torniamo presto indietro e poco dopo sbocchiamo in un immenso circuito intorno al quale levano la calva testa dei monti aridi che si allungano o si ammucchiano a vista d’occhio fino all’orizzonte, sotto un cielo basso dove strisciano continuamente nuvoloni pesanti. Le coste fumano qua e là, e giù nello smisurato imbuto che abbiamo sotto gli occhi, è tutto un accavallarsi di monticelli lividi, marmorizzati da efflorescenze gialle, biancastre o rosse; come a Comittini, essi sono forati e fumano sempre. Dalla singolare vallata vien su un acre vapore sulfufero che stringe la gola, e la nudità delle coste brulle si estende a perdita di vista” (Vuillier Gastone, La Sicilia, impressioni del presente e del passato, Milano 1897).
Plastico sui picconieri delle miniere di zolfo del Museo della zolfara di Montedoro