La miniera e i suoi lavoranti: mansioni e condizioni lavorative, fisiche e morali delle varie figure, dai “carusi” ai “pirriatura”, ai “vagonatura”, ai “ricivitura” , fino alla categoria più elevata di operai di miniera, rappresentata da elettricisti e meccanici

Immagine di minatore che spilla lo zolfo

Lo spillamento dello zolfo dopo la sua fusione nei calcheroni o nei forni

I picconieri o “pirriatura” estirpavano il minerale e lo mandavano fuori dalla miniera. Il loro compenso era a giornata o secondo la quantità di zolfo estratto; il turno di lavoro era di otto ore e alcuni, per guadagnare di più, facevano “la duppia“, cioè aumentavano le ore di lavoro.

Le giornate lavorative in un mese variavano da venti a venticinque, essendo giorni di riposo la domenica, i giorni festivi nonché quelli in cui il lavoro era reso impossibile da guasti e riparazioni agli impianti. Nelle ore di lavoro essi stavano quasi completamente nudi per il caldo delle gallerie sotterranee.

Giuseppe Pitrè, nel volume primo degli “Usi e costumi del popolo siciliano”, si sofferma a parlare delle tristi condizioni dei picconieri dei suoi tempi, dei quali egli descrive lo stato di abbrutimento con pennellate quanto mai vive, riportando un saggio delle terribili imprecazioni che questi infelici oppressi dalla fatica lanciavano contro tutto e contro tutti. Espressioni tipiche d’altri tempi e di condizioni ambientali e sociali completamente diverse dalle nostre, di cui a titolo d’esempio se ne ricorda qualcuna.

Maliditta me matri ca mi cria!
Porcu lu parrinu ca mi vattià!
Cristu era megliu ca mi faciva porcu, almenu all’annu mi scannavanu, la pigliava ‘nsacchetta e muria!

I Carusi erano elementi essenziali in tale sistema di lavoro: sotto tale nome andavano compresi non solo i ragazzi, ma anche gente invecchiata in quel mestiere; il loro compito consisteva nel trasportare all’esterno il materiale estratto nelle viscere della terra, in un’epoca in cui si sconoscevano gli ascensori meccanici o non si avevano le capacità economiche per impiantarli. Essi possono essere considerati addirittura come gli schiavi dell’industria zolfifera, la cui attività era pesantissima e sicuramente non adatta alla tenera età. Erano infatti adoperati anche dei ragazzi dell’età di sei anni e fu salutato come un portento il provvedimento legislativo n. 3657 dell’undici febbraio 1886 che vietava l’impiego di ragazzi se non avessero compiuto il decimo anno di età e se non fossero stati di sana costituzione fisica da accertarsi mediante visita medica. Giuseppe Pitrè, nel volume sopra citato, ci parla anche dell’impiego di caruse, solitamente nei lavori di riempimento dei calcheroni, ma si è riscontrata tale consuetudine in pochi centri zolfiferi, tra cui Cianciana, donde appunto l’autore ne ebbe notizia.

Il superiore diretto dei carusi era il picconiere; dopo che questi aveva preparato il carico, i carusi lo mettevano dentro sacchi di tela molto robusti o più spesso in cesti di vimini di forma conica, gli “stirriaturi“. Adattandosi su una spalla un cuscino riempito di paglia con una correggia alle punte, che essi facevano passare sulla fronte per farlo restare fermo, vi poggiavano sopra il carico e, disponendosi in fila indiana, cominciavano l’ascesa attraverso le scale senza fine, così strette da non permettere il passaggio simultaneo di due persone. Il primo della fila portava la lucerna di creta a olio sulla fronte, uncinandola alla corda che sosteneva il cuscino. Il carico era costituito da circa cinquanta chilogrammi di minerale, come un sacco di cemento; è quindi immaginabile l’enorme fatica cui erano sottoposti quegli esili corpicini, molto spesso malnutriti.

Nudi o quasi, muniti di un gonnellino cinto alla vita, essi vennero rappresentati da scrittori che visitarono le zolfare, tra cui Luigi Pirandello che ce ne da una suggestiva descrizione nella novella “Ciaula scopre la luna”.

Iniziata la marcia per portare il minerale all’esterno “spaddafori” cioè a spalla, essi si fermavano ogni tanto per riprendere fiato. La discesa avveniva invece lentamente per il rammarico di dover abbandonare la chiara luce per immergersi nuovamente nell’oscurità e per la paura che provavano nei confronti del picconiere, che, essendo pagato a cottimo, li accoglieva con parolacce o addirittura li percuoteva a calci e a pugni pensando che avesse impiegato troppo tempo per il trasporto; il suo potere sul caruso era infatti molto grande. Pagando ai genitori di questo qualche centinaio di lire, il che prendeva il nome di “succursu muortu“, egli assumeva sotto la sua direzione il ragazzo, cui forniva il cibo, consistente in pane di segale, in qualche pezzo di formaggio e nel “cucinatu“, costituito dalla cosiddetta pasta alla “carrittera“, cioè bianca o con olio e aglio, oppure condito con sugo fatto alla buona o con prodotti tipici della stagione: in primavera per esempio erano molto usate le fave verdi, i cosiddetti “faviani“.

Succedeva spesso che i genitori del caruso accettassero il “succursu muortu” da un altro picconiere, e si rifiutassero di restituire al primo la somma ricevuta, provocando così delle liti con conseguenze talvolta dolorose. È facile comprendere in quali condizioni fisiche e morali crescessero questi ragazzi. Spesso era dato vedere dei corpi sbilenchi, con le gambe ad angolo per l’abitudine a camminare sotto gravi pesi; le ginocchia di una grossezza eccezionale, la pancia rigonfia, fenomeno dovuto alla malaria e combattuta con mezzi empirici, sconoscendosi il chinino, cioè inghiottendo grani di pepe o infusi fatti con legno cassio.

Moralmente questi ragazzi venivano su in condizioni ancora più spaventose; abbrutiti per non avere conosciuto le gioie dell’infanzia spensierata, avendo vissuto in luoghi in cui facilmente potevano svilupparsi gli istinti più bestiali, privi di una benché minima educazione scolastica e immersi nel più totale analfabetismo.

Gli spesalori o “spisalora“, lavoravano nell’interno della miniera e avevano l’incarico di eseguire tutte le riparazioni necessarie, gli abbattimenti dei materiali sterili nonché le opere necessarie alla circolazione dell’aria nelle gallerie.

I vagonieri o “vagonatura” erano dei carusi prossimi a divenire picconieri, dai sedici ai vent’anni; il loro lavoro consisteva nello spingere i vagoni sulle rotaie, per trasportare il minerale ai luoghi di scarico; il pagamento era proporzionato al numero di vagoni che trasportavano. Questa attività era meno pesante di quella del picconiere o del caruso; infatti la maggior fatica si aveva soltanto per rimettere sulle rotaie il vagone che accidentalmente era “scarruzzatu” cioè ne era venuto fuori.

I ricevitori o “ricivitura” erano operai che stavano all’ingresso e al basso del pozzo o dei piani inclinati per ricevere i vagoni pieni o scarichi e manovrarli per introdurli o estrarli dalle gabbie. In ogni pozzo o piano inclinato lavoravano due alla volta, l’uno alla bocca del pozzo, l’altro alla fine della galleria che immetteva al pozzo.

I marchieri o “marchera” avevano l’incarico di annotare su tabelle apposite il numero numero dei vagoni che ciascuna partita mandava fuori, deducendo ciò dal segno apposto sui vagoni, consistente in un piccolo biglietto appiccicato con creta impastata. La loro paga, nonché il tenore di vita, erano superiori rispetto alle altre categorie fin qui considerate.

I pompieri o acquaioli erano un tempo noti col nome di “trummiatura“, perchè azionavano delle pompe idrauliche a mano dette “trummi“. Il loro compito era quello di badare al funzionamento delle potenti macchine idrovore impiegate per l’eduzione delle acque.

Immagine di un organigramma che rappresenta le varie mansioni all’interno di una miniera di zolfo

Organigramma dei lavoranti di una miniera: dai carusi alla categoria più elevata di operai quali gli elettricisti e i meccanici

La categoria più elevata di operai in una miniera era rappresentata dagli elettricisti e dai meccanici di ogni tipo, i quali avevano il compito di costruire i pezzi di ricambio e di eseguire le riparazioni ai vari congegni moderni; infatti in ogni miniera esistevano una o più officine divise in vari reparti, dove degli operai esperti eseguivano lavori ottimi per esattezza e bravura. In molte zone, dette officine erano annesse a potenti centrali elettriche dove svolgevano la loro attività gli elettricisti , in numero proporzionato all’impresa, ed erano di più prima che le centrali termoelettriche locali fossero rimpiazzate dall’energia fornita dalla Società Generale Elettrica, che aveva i suoi impianti principali a Porto Empedocle, consentendo un notevole risparmio agli esercenti delle miniere.

I macchinisti avevano il compito di provvedere al funzionamento delle macchine di ogni tipo, segnalando preventivamente l’eventualità di qualche guasto, onde evitare disastri alla miniera e danni alla vita degli operai; pertanto dovevano svolgere una febbrile attività ispezionando e ripulendo continuamente i congegni, e provvedendo ad azionare l’argano, il tipico macchinario che faceva muovere le gabbie e le benne per il trasporto del minerale e degli uomini nei pozzi.

I catastieri o “catastara” eseguivano e sorvegliavano l’accatastamento dello zolfo grezzo e delle forme o “balate” di zolfo fuso, curando che queste fossero ben allineate.

I riempitori o “inchitura” curavano la fusione del minerale; infatti questa dipendeva dall’esatto riempimento dei calcheroni e dei forni che avveniva mettendo il materiale più grosso in basso e quello più minuto in alto fino a formare un cono, erano cottimisti e quindi pagati secondo il numero di vagoni impostati, e dalle somme ricevute dovevano detrarre l’importo per pagare i carusi, che li aiutavano nel riempimento e nello svuotamento degli impianti di fusione.

Gli arditori o “arditura” erano i veri arbitri della produzione. Essi guidavano e assistevano la fusione, cercando di ottenere una buona solidificazione, garanzia di qualità dello zolfo. Erano direttamente sorvegliati dal capomastro e dai periti minerari che gli impartivano delle direttive per scongiurare una cattiva produzione. La loro attività era continua, dovendo badare a più calcheroni in fusione contemporaneamente sia di notte che di giorno. Il pagamento era proporzionato alla quantità di balate estratte dalla fusione.

Essi erano riconoscibili anche in paese perché avevano i calzoni spruzzati di zolfo nel suo caratteristico colore giallo, erano espertissimi nel modellare statuine di ogni tipo, facendo colare lo zolfo liquido sulle forme di gesso o di cemento costruite da loro stessi. Davano inoltre prova di virtuosismo a quanti visitavano per la prima volta la miniera, immergendo la mano, preventivamente bagnata con acqua fresca, nello zolfo bollente e ritirandola illesa, giacchè il minerale a contatto con l’acqua si raffredda e si solidifica.

Ma alcune volte riportavano terribili scottature dovute al loro stato di ubriachezza; talvolta si addormentavano in tali condizioni, mentre il minerale si spandeva sul terreno andando perduto. Ciò segnava inevitabilmente la sospensione dal lavoro o addirittura il licenziamento. Egli beveva il vino soprattutto per sfuggire alle difficoltà respiratorie dovute alle continue inalazioni di fumo, da cui l’espressione tipica, comune ad altre categorie di zolfatari: “Viviri vinu è nicissariu ppi sarbari la cascia di lu piettu“.

I pesatori o “pisatura” avevano il compito di pesare tutto lo zolfo sia al momento della divisione tra proprietario ed esercente, sia al momento della spedizione ai magazzini o ai porti d’imbarco. Essi dovevano dare esatto conto della quantità di zolfo prodotto e di quello consegnato. Dovevano essere persone molto oneste per meritarsi la fiducia delle parti. Gli strumenti a loro disposizione erano stadere, bilance a sospensione, ma soprattutto la basculla che prendeva comunemente il nome di “bilicu“.

I magazzinieri espletavano una doppia mansione; alcuni attendevano ai magazzini di attrezzi e di rifornimenti vari occorrenti per il funzionamento della miniera, altri accudivano ai depositi dello zolfo fuso.

I primi quindi lavoravano in miniera e il loro ruolo era quello di controllare l’uscita e l’entrata di materiale di ogni tipo, prendendo nota di tutto in appositi registri, rilasciando i fogli di accompagnamento alle persone che avevano il compito di ritirare i vari oggetti per conto delle partite di lavoratori. Nei loro magazzini si trovava di tutto, dai chiodi di ogni tipo e misura alle “quartari” e alle “bummula“. Dal carburo per acetilene alle robuste corde di canapa o di ferro attorcigliato.

I magazzinieri addetti ai depositi di minerale fuso a volte lavoravano in miniera, ma più spesso negli scali ferroviari o nei porti d’imbarco, che per la maggior parte delle zolfifere siciliane erano Licata e Porto Empedocle, capolinea di due importanti ferrovie, e Termini Imerese, sul Tirreno, che serviva il bacino di Lercara in provincia di Palermo. Il compito di tali persone era dei più delicati, dovendo prendere nota di tutto lo zolfo trasportato per mezzo di carretti, autocarri e treno.

I fabbri o “masci firrara“, erano indispensabili in ogni miniera, giacchè dovevano riparare gli strumenti di lavoro dei picconieri, degli arditori e di altre categorie di lavoratori, nonché i vagoni per il trasporto del minerale. Essi erano retribuiti a giornata o secondo l’entità del lavoro compiuto.

I bottegai erano chiamati in alcune miniere “ncantinara“, appunto perché la bottega della miniera prendeva spesso il nome di “cantina“. Era loro compito fornire i generi alimentari e tutto il necessario per il numeroso personale. Il meccanismo di vendita era il seguente: i lavoratori ricevevano un buono d’acquisto firmato da un capomastro su cui c’era l’indicazione dei generi che si volevano acquistare e il nome dell’operaio, così il bottegaio aveva cura di metterli in ordine per ogni singola persona e si faceva pagare direttamente dall’amministrazione al momento della paga, che avveniva alla fine del mese. Al bottegaio era inoltre lasciata libertà sui prezzi, così gli operai aventi diritto al sussidio in natura dovevano ritirarlo direttamente alla cantina, col risultato di essere costretti a prendere i generi di consumo a prezzi sensibilmente maggiorati, mentre sulla qualità di alcuni di essi non c’era da fare molto affidamento; né qualcuno poteva intervenire e tanto meno l’amministrazione, che riceveva lauti guadagni secondo una percentuale precedentemente stabilita. Per fortuna tale sistema, che ricordava molto il classico strozzinaggio, cominciò a scomparire del tutto, per cui il lavoratore delle zolfare ebbe riconosciuto il diritto di spendere il suo denaro dove gli sembrava più conveniente.

Per concludere la rassegna del personale lavorante si parlerà di una tipica figura, “lu cogli pizzami“, il quale raccoglieva i frammenti di zolfo fuso caduti dai carrelli o da altri veicoli di trasporto, che prendevano appunto il nome di “pizzami“, riuscendo talvolta a metterne insieme una cospicua quantità. I suoi arnesi erano la scopa, la pala, nonché uno “stirraturi“.

A tale lavoro, per la sua facilità, erano addetti anche degli uomini dalla non piena capacità fisica; per questo rappresentavano lo spasso di altri lavoratori che ridevano dei loro difetti.

Immagine di carusi (bambini) che spingono i vagoni carichi di zolfo sulle rotaie

Vagonieri o vagonatura: carusi che spingevano i vagoni sulle rotaie per trasportare il minerale ai luoghi di scarico