Diversi erano i modi in cui lo zolfo veniva trattato dopo la sua estrazione dalla miniera

Immagine di un forno per la fusione dello zolfo

Metodo di fusione dello zolfo con il vapore – Solfara di Grottacalda

La fusione

Fu il primo metodo utilizzato per separare lo zolfo dalla ganga, mentre in tempi più recenti fu inventata la flottazione che invece sfruttava dei principi chimici.

La calcarella

E’ il mezzo di fusione più antico che conosciamo; si tratta di un fosso costruito a piano inclinato, profondo nella parte anteriore molto più che in quella posteriore, in modo da permettere la colata verso un’apertura detta morte dell’olio, cioè la parte pura del minerale, quella che solidificandosi assumeva il caratteristico colore giallo.

Con un diametro di pochi metri, poteva contenere al massimo quattro o cinque metri cubi di minerale. La fusione era rapida; in meno di ventiquattro ore si completava la fusione dello zolfo, con il vantaggio, soprattutto per chi avesse modesti fondi, di far subito denaro per fronteggiare le spese incalzanti.

Ma con questo tipo di fusione due terzi dello zolfo si volatilizzavano sotto forma di anidride solforosa, dannosissima sia per le colture circostanti, sia per la salute e a volte la vita degli operai.

Il calcherone

Per ovviare al grande dispendio di minerale si pensò di ricorrere al rivestimento esterno della massa in fusione: nacque così il calcherone.

Le opinioni circa la sua nascita sono comunque varie: si dice che nel 1842 vennero incendiati per vendetta alcuni cumuli di minerale destinato alla fusione nella miniera Chimento nei pressi di Favara; accorsero quindi centinaia di uomini incaricati di spegnere la massa ardente ricoprendola con grandi quantità di terra, onde evitare la rovina totale delle colture circostanti.

Dopo qualche mese gli operai si accorsero che colava olio di ottima qualità e cosi, vista la grande utilità, il metodo si diffuse in poco tempo.

Altri affermano che furono l’esperienza e il buon senso a suggerire la copertura delle masse in fusione. In ogni caso è certo che il calcherone si diffuse nella seconda metà dell’ottocento.

Nella parte interiore del calcherone si trovava un sorta di stanzino, dove c’era posto per l’arditore e per gli arnesi occorrentigli.

Immagine di una sezione del calcherone utilizzato nelle miniere per la fusione dello zolfo

Sezione A B: disposizione iniziale della carica del calcherone per la fusione dello zolfo

Gli operai addetti al riempimento prendevano il nome di inchitura, di arditura coloro che badavano alle varie fasi della fusione, mentre gli svuotatori del calcherone venivano chiamati scarcaratura o scarcarunara.

I riempitori erano cottimisti e avevano alle loro dipendenze un certo numero di carusi, il cui compito consisteva nel prendere il minerale accatastato o condurlo fino ai calcheroni che arrivavano ad avere un diametro di oltre venti metri e una capacità di circa duemilacinquecento metri cubi, per qui l’operazione di riempimento durava varie settimane e la fusione parecchi mesi.

L’operazione veniva fatta con grande perizia: i pezzi più grossi venivano disposti a formare le vie, i curritura, che la massa fusa doveva attraversare, mentre il resto si ammassava qua e la avendo cura di lasciare gli sfiatatoi o pupalori che alimentassero e favorissero l’accensione.

E’ una pagina stupenda quella in cui il Can. Francesco Pulci ci descrive il riempimento del calcherone:

Il partitante, che ha l’impresa di riempire il calcherone, ha sotto di se dei riempitori (inchitura) che preparano il carico, ed ognuno di questi dispone a sua volta di due carusi pel trasporto di minerale dal punto dell’impostazione al calcarone.

Il partitante, postosi a sedere presso il calcarone, tieni innanzi a se tanti berretti di vario colore quanti sono i riempitori.

I carusi, che fanno il trasporto, dividono la giornata in nove tagliate, una tagliata comprende cinquanta viaggi, per la brevissima distanza che corre tra il calcarone ed il punto dov’è l’impostazione del minerale. Il caruso ogni volta che arriva scarica il suo viaggio nel calcarone e grida ad alta voce al partitante il colore del berretto che appartiene al riempitore da cui egli dipende.

Il partitante per marcare questi viaggi si serve di una quantità di noccioli di uliva. Così appena il caruso grida: russu, biancu, niuru, ecc., il partitante mette un nocciolo nel berretto corrispondente.

Se per caso i berretti sono tutti di un colore, i riempitori allora si servono di diversi segnali per distinguerli, così mettono un pezzo di zolfo, di rosticcio, una scorza d’arancia (se è d’inverno), de’ baccelli di fava (s’è di primavera), un pezzo di cetriolo, una scorza di popone (s’è di estate un raspo d’uva, il torso di una pera s’è di autunno) e una scarpa, un truciolo di legno, via dicendo.

Il caruso allora invece di gridare il nome del berretto grida il nome dell’oggetto che vi è dentro, così una squadra di 40 carusi e 20 riempitori si sentono senza interruzione a mano a mano che quelli arrivano al calcarone le grida: favina a … a! racina … a … a ! ginisi … i … i! aranciu … u … u!

Dei due carusi del riempitore uno solo deve gridare il nome (dell’oggetto) che gli appartiene, e ciò perché non succeda imbroglio o confusione.

I carusi così facendo sanno regolarsi alla fine della loro giornata di lavoro, e allora chiedono al partitante di contare i noccioli contenuti nel berretto che ad essi appartiene.

Struttura del calcherone nelle miniere di zolfo

Il calcherone veniva usato per fondere lo zolfo: il minerale veniva collocato su una piattaforma inclinata, disponendo sul fondo quello di dimensione maggiore e poi via via quello sempre più minuto, fino ad ottenere un monte conico

Dopo aver colmato il calcherone dandogli la forma di un cono, si ricopriva con rosticci di zolfo, cioè il materiale di scarto che rimaneva dalle precedenti fusioni e che comunemente era chiamato ginisi, lasciando allo scoperto alcune piccole zone, normalmente tre, di forma circolare dove si apprendeva il fuoco con fascine imbevute di minerale, avendo cura, durante il periodo di fusione, di regolare la copertura, ‘ncammisata, alleggerendolo nei periodi di umidità per ravviare l’accensione, aumentandola quando c’era vento per evitare che si perdessero molto materiale sotto forma di anidride solforosa, che depositava sulla superficie magnifiche chiazze gialle, costituite da zolfo finissimo denominato ciuri di surfaru o surfaru virgini.

Dopo qualche giorno gli arditori comprendevano da vari indizi, tra cui il forte calore assunto dal muro della morte del calcherone, che stava per cominciare la colata dello zolfo. Questo, scorrendo attraverso una canaletta fissa solitamente in lamiera, veniva raccolto in forme di legno, le gavite, che erano in precedenza state bagnate abbondantemente per evitare che lo zolfo si attaccasse alle pareti e per accelerare il raffreddamento dello stesso.

Appena il recipiente si riempiva, la colata veniva spostata in un altro recipiente attraverso una seconda canaletta mobile.

La gavita aveva generalmente la forma di un tronco di piramide, qualche volta di un parallelepipedo, ed i piani di zolfo che si ottenevano, le balate raggiungevano un peso variabile tra i cinquanta e gli ottanta chilogrammi.

Quando la fusione avveniva a rilento, tanto da minacciare lo spegnimento della massa, si aveva il calcherone’ntrunatu o ‘ncannaruzzatu; per ravviare la combustione si toglieva qua e là la copertura, favorendo l’infiltrazione dell’ossigeno necessario alla combustione.

Ma i danni più gravi si avevano quando la combustione avveniva rapidamente per il soffiare dei venti o per insufficiente copertura; gli indizi erano dati dall’abbondante emissione di fumo e della elevata temperatura circostante.

Si trattava del cosiddetto calcaruni ‘nfucatu per il quale si correva al riparo versando grandi quantità di terra e di acqua.

Immagine di un antico calcherone  di una miniera per la fusione dello zolfo

Antico calcherone di una miniera di zolfo