Costumi, abitudini, carattere, “panza firma” e “sanguiltà” che contraddistinguevano gli zolfatai e la loro vita e da cui deriva la triste fama di cui godevano i principali centri minerari dell’isola

Immagine di un villaggio di minatori

Villaggio di minatori di una miniera siciliana – Foto di Dafne Russo

Gli zolfatai non sempre furono considerati uomini di buoni costumi, anzi al contrario questa brutta fama si basava su dati di fatto, così anche oggi a gente di pessima fama si sente dare l’appellativo di "veru surfararu" oppure "surfararazzu".

Narrano i vecchi che sino a pochi decenni or sono nei giorni di domenica e di festa i paesi sembravano dei campi di battaglia. Per futili questioni iniziavano violente zuffe in cui non era raro che i contendenti si accoltellassero con quelle terribili lame tascabili di cui ognuno era munito o addirittura lottassero con le pistole. I luoghi di scontro preferiti erano le bettole o addirittura la piazza del paese; le conseguenze erano funeste, gravi ferimenti o addirittura uccisioni, mentre quelli che avevano fatto "cuorpu" cioè coloro che li avevano commessi, cercavano di imbarcarsi con passaporti più o meno legali per l’America. Avveniva spesso che chi voleva soddisfare qualche vendetta, preparasse prima i documenti per espatriare.

In tutti i paesi si erano formate delle consorterie, costituite dall’unione dei membri di una o più famiglie, contrassegnate ognuna con un nomignolo, che indicava qualche caratteristica somatica dei componenti o significante la loro delinquenza.

L’omertà era massima e questa gente reputava uno scorno che il proprio offensore fosse punito da un Tribunale, perché riteneva sacrosanto il diritto di farsi giustizia con le proprie mani, onde si accaniva a discolpare il feritore o l’uccisore di qualche congiunto per riservarsi la terribile soddisfazione di fargli fare la medesima tragica fine.

Si svolgevano dei processi sensazionali e complicati, dove tutti gli sforzi dei magistrati tendevano a spingere la famiglia dell’offeso a deporre contro l’imputato, ma spesso gli sforzi andavano a vuoto specialmente se ci si trovava di fronte a persone di "panza firma", che dimostrasse "sanguiltà", a significare fermezza di carattere. È nata in tal modo una ricca serie di narrazioni riferentesi tanto alle liti quanto ai processi che ne seguivano. Dato questo stato di cose e correndo i primi anni dell’unità d’Italia, anche in paesi di piccola importanza furono istallati dei distaccamenti militari, che intervenivano a dar man forte alle forze dell’ordine.

Immagine dall’alto della città di Favara in provincia di Agrigento

Panoramica di Favara (prov. di Agrigento) che in passato era nota per la sua triste nomea

Per tal motivo molti paesi si sono resi tristemente famosi anche fuori dalla Sicilia: un carabiniere ligure, trovandosi già da vari anni in servizio alla miniera "Trabia", affermava che gli amici del suo paese, saputo che era stato destinato in provincia di Caltanissetta, stringendosi sulle spalle gli dissero:"Madonna! Tu andrai a finire vicino a Riesi!". Questo grosso centro infatti, nel cui territorio si trovava una sezione della più grande miniera solfifera della Sicilia, come Favara, monopolizzava gran parte di questa triste nomea. Il ricordo delle gesta di quest’ultimo paese era lumeggiato da una canzone in gran parte sconosciuta, che cominciava con i versi:

Sapiti chi successi a la Favara?
Setti si ammazzaru ppi na lira.
Lu Spampinatu tira la pistola
E cuorpi n’appi ncapu settimila
Lu sangu curriva a viola
Ca inchiri si potti ‘na briatura ccu li cannola

I versi, che avevano un seguito perdutosi nella tradizione orale, descrivono un episodio avvenuto molti anni addietro, causato forse da liti sorte nella spartizione della paga.

Le cause di un tale stato di cose erano varie: il malgoverno, triste retaggio delle precedenti dominazioni che non si erano curate dell’elevazione morale e materiale del popolo; l’ignoranza, aggravata dalle prepotenze di una casta ancora feudale e dalla mafia imperante; la mancanza di una legislazione sociale. La gente dello zolfo era abbruttita, svolgendo tutta la sua vita tra la miniera e la casa.

L’operaio delle miniere provvedeva quanto poteva alla sua elevazione e al miglioramento delle condizioni di vita familiare. Nei dopolavoro e nei locali di pubblico spettacolo egli apprendeva le norme del vivere sociale e affinava in tal modo i suoi costumi; nella maggior parte dei casi egli era scrupoloso nel provvedere all’educazione dei figli e, appena ne aveva la minima possibilità, li mandava a frequentare le scuole secondarie, affrontando dei sacrifici non indifferenti. Accadeva così di vedere qualche lavoratore con figli diplomati o laureati, ma non per questo egli tralasciava la sua attività; finché le forze lo assistevano rimaneva fedele alla sua miniera, dove aveva speso le sue energie sin dalla giovane età e che, nel bene e nel male, gli aveva permesso di vivere e di mantenere una famiglia.

Immagine di un gruppo di minatori mentre lavorano

Gruppo di minatori mentre lavorano