Salvo poche eccezioni, le zolfare erano molto distanti dai centri abitati. Come ci dice I. Di Giovanni, “quella di cinque o sei chilometri può considerarsi come la distanza media, ma è necessario tener presente che in non pochi casi tale distanza va fino ai 12 o 14 chilometri”
Abitazioni abbandonate e in rovina degli zolfatai di via Xiboli a Caltanissetta – Foto di Dafne Russo
Sono distanze che al giorno d’oggi sembrerebbero irrisorie, ma bisogna considerare che prima della diffusione dei mezzi meccanici di locomozione, si camminava a piedi ed era un lusso potersi permettere un viaggio a schiena di mulo o su un carretto, figuriamoci poi possederne uno.
Se la miniera non era molto distante dai centri abitati, i lavoratori, finito il turno di lavoro, ritornavano in paese rifacendo la strada in varie ore. Al termine del lavoro essi si ritrovavano con andatura sempre brillante, un pò stanca per la fatica sostenuta, imbrattati di polvere e di sudore, incontrandosi con altri che andavano a prendere il posto lasciato dai primi, e quest’incontro avveniva in mezzo ad un vocio, al mescolarsi di saluti e motti di spirito.
I turni, un tempo due, per l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore divennero in seguito tre, facendo si che il lavoro non avesse sosta tranne nelle giornate di festa. Le piazze dei centri zolfiferi erano sempre affollatissime di gente, da poco tornata dal lavoro o in procinto di recarvisi.
Doveva essere bello assistere alla sfilata dei lavoratori che andavano o ritornavano dalla miniera nelle ore notturne; le tenebre erano rotte dal luccichio di numerose fiammelle che a distanza suscitavano l’impressione di una sacra processione.
Se i lavoratori si trovavano in miniere distanti dai loro paesi, essi non vi ritornavano che una volta alla settimana o più spesso dopo quindici giorni; le loro dimore erano quelle che di più vario possa immaginarsi, normalmente un misto di selvaggio e di primitivo.
Tolta la brutta consuetudine di dormire all’interno del giacimento, e ciò sin dallo scorso secolo, gli operai si adattarono ad abitare in grotte scavate nella roccia, munite all’entrata di alcuni pezzi di legno uniti a formare una parvenza di porta.
Simile sistema era diffuso tra le famiglie zolfataie in quei centri dove le condizioni morfologiche locali lo consentivano: a Caltanissetta, cuore dell’industria estrattiva siciliana, il quartiere di Sant’Anna era costituito da grotte abitate, che il comune provvide a togliere per il decoro della città, anche perché era divenuto luogo del malcostume e covo della delinquenza cittadina.
Panoramica del villaggio Santa Barbara di Caltanissetta costruito per i minatori che lavoravano nelle miniere site nel nisseno
In seguito gli operai, tranne casi sparuti, abitavano in casette in muratura, disposte in lunghe file, tutte con la stessa simmetria, fornite, come aperture, di una porta e di un piccolo sportello in alto, ad altezza d’uomo, e dotate, come mobilio, di qualche pagliericcio, un rozzo tavolo e pochi sgabelli: servivano da abitazione a varie persone, generalmente dello stesso paese.
L’operaio vi restava il tempo necessario per preparare il desinare e dormire, perché le ore libere egli le trascorreva all’aperto o all’osteria. L’amara realtà dei minatori costretti a vivere in grotte o a dormire nei malsani calcheroni o in degli incavi ricavati all’interno dei depositi di rosticcio chiamati comunemente "cubuluna" fu denunciata tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento da antropologi e da medici; la lontananza delle abitazioni degli zolfatari dal posto di lavoro era un grosso problema che si ripercuoteva soprattutto sulla salute fisica dei minatori, già distrutti dal durissimo lavoro nelle zolfare.
" I chilometri di percorso che egli (l’operaio) compie vanno imputati al conto del consumo quotidiano di energia e sono quindi da sommarsi all’alto dispendio di forza che esige il lavoro. E il bilancio è presto fatto. Si pensi: un percorso – attenendosi alla media generale – di cinque chilometri per recarsi alla miniera, un migliaio di gradini per scendere nel sotterraneo, otto ore di duro lavoro in un ambiente antigienico e poi rifare in salita quel migliaio di gradini e ricalcare quei cinque chilometri per tornare a casa. Che dire poi quando alla giornata di lavoro si unisce lo sforzo per compiere una ventina di chilometri fra l’andata e il ritorno!".
Comincia quindi ad essere compresa l’importanza del benessere fisico e morale delle maestranze che si potrà raggiungere solo quando verranno costruiti dei veri villaggi dotati di servizi sanitari, energia elettrica, magazzini viveri, uffici telegrafici e postali, scuole, ecc.
Ci si accorge come siano presenti tutti quegli elementi che avevano portato nell’ottocento alla nascita dei villaggi operai in Europa: la convinzione che il villaggio debba avere un carattere agricolo – operaio, completo di strutture assistenziali e collettive; l’intenzione di legare l’operaio al posto di lavoro, in questo caso la miniera, con tutti quei fili sottili che fanno capo alla casa, alla famiglia, all’orto, contrapposti alle tentazioni come la "bettola" o il cinema, che avrebbero influito notevolmente sul rendimento degli operai nelle ore di lavoro.
Si scopre così anche in Sicilia l’enorme utilità che si ricava dal poter predisporre l’alloggio operaio in prossimità del luogo di lavoro, ma si è in ritardo di quasi un secolo rispetto alle esperienze europee, a testimonianza della arretrata economia nella quale si era sviluppata l’industria solfifera siciliana.
Inoltre nelle altre realtà europee, l’iniziativa partiva molto spesso dagli stessi privati che investivano il loro capitale in vista di maggiori guadagni futuri derivanti dal tanto auspicato aumento di produttività. In Sicilia invece si era in presenza di una classe imprenditoriale parassitaria e restia ad investire il proprio capitale e si dovettero attendere gli interventi statali.
Monumento ai minatori del villaggio Santa Barbara o Terrapelata a Caltanissetta – Foto di Dafne Russo