Roma insediò in Sicilia suoi rappresentanti e precisamente un governatore, due questori (funzionari del tesoro residenti a Lilibeo, oggi Marsala, e a Siracusa), vari esattori locali delle imposte.
Immagine che descrive la schiavitù di Roma in quei tempi.
Il governatore durava in carica un anno. La brevità dell’incarico, che poteva, però, essere prorogato, ed i criteri con i quali erano scelti i governatori, che non includevano la capacità di governare, non consentivano una buona amministrazione. I magistrati romani spesso si rivelarono avidi e disonesti e depredarono la Sicilia anche delle sue opere d’arte.
Questa ruberia di stato presentò anche aspetti di grossolanità e di ignoranza, come quando il pretore Vario Messana portò da Catania a Roma l’orologio solare, che per parecchi anni segnò nel comitium (parte del foro romano dove si svolgevano le assemblee dei cittadini) l’ora sbagliata per la differenza di latitudine delle due località.
Tristamente famoso rimase Gaio Verre, che governò la Sicilia per tre anni e fu processato per le sue ruberie. Sostenne l’accusa Cicerone e Verre andò in esilio. In linea generale Roma lasciò ai Siciliani l’amministrazione locale, secondo un sistema già applicato negli altri territori conquistati, che la sollevava da un considerevole onere.
Continuarono ad avere vigore le norme di diritto privato del periodo greco, tra cui quella che non consentiva la proprietà della terra ai non appartenenti alla città. Quando, però, Roma aveva qualche interesse ad intervenire, non teneva in nessun conto le autonomie locali.
Ne è un esempio, nel 131, la legge Rupilia sugli schiavi e, nel 197, la disposizione del senato secondo la quale la popolazione di Agrigento doveva essere incrementata con elementi provenienti da altre parti della Sicilia.