La rivoluzione siciliana del 1848 iniziò il 12 gennaio 1848. Il moto siciliano fu il primo a scoppiare in un anno colmo di rivoluzioni e rivolte popolari, avviando quell’ondata di moti rivoluzionari che sconvolse l’Europa e che viene definita primavera dei popoli.

rivolta a palermo dell’1848

La scintilla rivoluzionaria del 1848 in Europa partì dalla Sicilia, e non fu un puro caso, infatti il capitalismo dominante in Europa aveva accentuato il divario esistente tra sviluppo e arretratezza, scaricando sui punti più deboli l’accelerato ritmo di arricchimento dei punti forti. Non è, dunque, strano se l’iniziativa rivoluzionaria partì da un punto periferico quale era la Sicilia. I fermenti sociali popolari e l’irrequietezza di alcuni settori borghesi confluirono nella rivoluzione del ’48, che non riuscì, però, a coinvolgere realmente le classi aristocratiche, che pure vi parteciparono, ma un dato significativo della sua forza furono le ripercussioni che essa ebbe su Napoli.

Il 1848 vide al suo esordio a Palermo tumulti di studenti, che causarono la chiusura dell’università e l’arresto di undici liberali, appartenenti al ceto nobiliare. Un manifesto anonimo messo in circolazione da Francesco Bagnasco annunziava che una rivolta avrebbe avuto inizio il 21 gennaio in coincidenza con il compleanno del re. La notizia, anche se di dubbia veridicità, conseguì il risultato di mettere in agitazione le autorità. Il giorno fatidico nel mercato della Fieravecchia un predicatore popolare istigò a tal punto gli animi alla ribellione con un discorso incendiario, che la rivoluzione scoppiò al suono delle campane di sant’Orsola e della Gancia e alcuni rivoltosi lasciarono la città per fomentare la rivoluzione anche nelle campagne vicine, infatti il giorno seguente squadre di contadini confluirono in città con l’intento di abbattere le tanto odiate barriere daziarie.

La rivoluzione al suo inizio fu di orientamento decisamente democratico, come emerse chiaramente dalle pressanti richieste di riforme sociali avanzate dal popolo; nobiltà, alto clero, alta e media borghesia non vi parteciparono e guardarono con sospetto alle richieste proletarie, solo in un secondo tempo vi aderirono sollecitati dai capi democratici più autorevoli (Crispi, La Masa, Pilo, Miloro, Carini), che miravano a costituire una coalizione antiborbonica di tutti i ceti sociali, unica valida premessa per una efficace azione rivoluzionaria. Aristocratici e borghesi si fecero sostenitori delle istanze autonomiste e federaliste, mentre ignorarono sempre le istanze sociali.

Il 14 gennaio per iniziativa dei capi democratici sorse un governo provvisorio composto da quattro comitati rivoluzionari (annona, finanze, guerra e pubblica sicurezza, informazioni), a cui furono preposti rispettivamente il marchese Spedalotto, sindaco di Palermo, il marchese Di Rudinì, il principe di Pantelleria e Ruggero Settimo, dei principi di Fitalia. La scelta dei democratici di affidare agli aristocratici un ruolo preminente era determinata da fattori operanti nella complessa struttura sociale isolana, dove i latifondisti rivestivano ancora un ruolo profondamente radicato, mentre i ceti medi manifestavano la chiara aspirazione ad uniformarsi al modello nobiliare. Un indirizzo giacobino della rivoluzione avrebbe allontanato da essa sia gli aristocratici, che i ceti medi, poco inclini alla rottura di equilibri consolidati.

Sotto la spinta degli avvenimenti il re il 18 gennaio offrì ai Siciliani l’autonomia amministrativa, purchè accettassero di rimanere sotto la monarchia borbonica, ma i capi della rivoluzione, esaltati dal successo, respinsero la proposta, mirando alla completa indipendenza da Napoli. I rivoltosi apparvero divisi in due gruppi: i liberali, che parlavano di autonomia siciliana, di costituzione liberale, di una federazione di stati italiani; i popolani ed i contadini, che esprimevano un indistinto desiderio di miglioramento sociale e chiedevano terre da coltivare e lavoro regolare. Questi ultimi rappresentavano la forza di gran lunga più rivoluzionaria ed ingovernabile, infatti l’esplosione della loro rabbia incontrollata contro gabelloti, esattori delle tasse, usurai, polizia poteva paralizzare lo svolgimento di tutte le normali attività. Essi, pur non avendo un orientamento politico, aderirono alla rivoluzione nell’intento di conseguire risultati di tipo sociale, infatti la loro azione fu mirata ad impadronirsi della terra distruggendo i boschi. Furono presi d’assalto i municipi e bruciati i titoli di proprietà, mentre i funzionari fuggivano lasciando i paesi nell’anarchia.

In questa confusione prosperavano le bande armate, poi definite "mafia", pagate alcune dai Borboni, altre dai liberali ed altre assolutamente indipendenti, che si impadronivano di terre e facevano razzie. Queste bande approfittarono del repentino crollo del governo per confluire a Palermo e offrire i loro servigi alle parti in lotta. Da Monreale e da Bagheria alla testa dei loro uomini confluirono a Palermo il Di Miceli e lo Scordato, noti delinquenti, che furono tra i capi della rivoluzione, e con essi altri dello stesso stampo.

Un dato importante della rivoluzione siciliana del ’48 fu la parola d’ordine programmatica proclamata apertamente il 19 gennaio: "La Costituzione del 1812 adattata ai tempi", circostanza che sottolineava l’intenzione di mantenere una continuità in senso evolutivo con il recente passato costituzionale della Sicilia, pur avanzando esigenze decisamente democratiche. Su questa base si realizzò la convergenza di opposte tendenze, che concordavano, però, nel rifiuto dell’assolutismo illuminato, nella rivendicazione dell’autonomia e nell’odio contro Napoli, dando al movimento rivoluzionario un’ampiezza del tutto nuova, che il governo napoletano avvertì con preoccupazione.

I circa settemila soldati borbonici di stanza a Palermo si rivelarono inadeguati a fronteggiare questo enorme ed inaspettato movimento di resistenza e, dopo alcuni iniziali insuccessi, bombardarono la città, accrescendo l’indignazione e la furia dei rivoltosi, che arrivarono a saccheggiare il palazzo reale e risparmiarono soltanto la Cappella Palatina. I soldati borbonici il 29 gennaio lasciarono Palermo e si imbarcarono a Solunto; ai comitati liberali si presentò urgente la necessità di dominare la furia popolare per incanalarla in un programma politico. In tale ottica fu chiesta l’adesione di altre città siciliane e risposero prontamente all’appello Catania e Messina, che avevano accantonato la vecchia rivalità con Palermo, da quando essa aveva perso la sua posizione di preminenza dopo il 1820, e che vedevano nella fuga dell’esercito nemico un successo promettente.

Il 28 gennaio a tutela dell’ordine e della proprietà fu istituita la Guardia Nazionale, forza prettamente alto-borghese come il suo ideatore, il banchiere barone Riso. Tra i rivoltosi i sostenitori di profonde trasformazioni sociali erano pochi e la rivolta contadina doveva in ogni caso fare i conti con la questione demaniale, su cui la borghesia aveva posizioni di maggiore intransigenza rispetto all’aristocrazia. Quando la presenza delle squadre cominciò a rappresentare un pericolo in tal senso, l’istituzione della Guardia Nazionale fu la risposta della borghesia, che si preoccupava di difendere le sue posizioni.

La decisione annunziata dal re il 10 febbraio di estendere alla Sicilia lo Statuto concesso a Napoli il 29 gennaio, stilato dal moderato Bozzelli ed esemplato sulla Costituzione francese del 1830, non cambiò la situazione, infatti esso prevedeva un parlamento unico per il regno delle due Sicilie. I comitati rivoluzionari il 3 febbraio dettero vita ad un governo provvisorio, presieduto da Ruggero Settimo, la cui composizione sottolineava un’alleanza tra aristocrazia e borghesia, che passava attraverso la Costituzione del 1812. Dopo il rifiuto delle poco significative concessioni offerte dal re ai Siciliani il 18 gennaio, gli Inglesi si posero come mediatori tra Sicilia e Napoli, non perchè avessero mire espansionistiche sulla Sicilia, ma perchè volevano garantire una condizione di equilibrio internazionale. Il loro inviato straordinario fu lord Minto, mentre il liberalismo avanzato napotelano spingeva perchè si desse alla Sicilia un parlamento separato, trattandosi del riconoscimento di un suo diritto, che rientrava nel contesto del mantenimento dell’identità storica delle singole province nel quadro della nazionalità italiana.

Il governo rivoluzionario volle ricostituire il parlamento siciliano sul modello di quello del 1812 e indisse le elezioni, da cui furono esclusi gli analfabeti, e cioè la maggior parte dei rivoltosi, che erano contadini e popolani. Ne venne fuori un parlamento in cui, sia nella Camera dei pari, che in quella dei comuni, c’erano parecchi esponenti della vecchia aristocrazia e comunque prevalevano le classi dominanti, anche se era incisiva nella Camera dei comuni la presenza di esuli ed intellettuali liberali. Sotto la pressione dell’elezione del parlamento siciliano e dell’annunciata sua convocazione per il 25 marzo, Ferdinando firmò il 6 marzo i decreti, frutto delle pressioni esercitate sul governo da lord Minto. Le proposte erano senza dubbio importanti e significative: si riconosceva il parlamento siciliano e la sua opera di adattamento ai tempi della Costituzione del 1812, ferma restando la sovranità di Ferdinando sull’isola; un ministero degli Affari di Sicilia veniva istituito a Napoli ed affidato al siciliano Gaetano Scovazzo, precedentemente ministro del governo costituzionale di Napoli; Ruggero Settimo veniva nominato luogotenente di Sicilia; a Palermo veniva istituito un governo composto dagli stessi elementi del Comitato generale creato dai rivoluzionari.

La Sicilia rifiutò ancora una volta la proposta di Ferdinando e avanzò delle controproposte, che equivalevano ad una richiesta di sostanziale separazione, come la richiesta di un vicerè, che fosse l’alter ego del re, e della cessione di un quarto della flotta e delle armi. Il rifiuto dei Siciliani alienò loro la simpatia sia degli Inglesi, che dei liberali napoletani. Convincente è la spiegazione dell’atteggiamento intransigente dei Siciliani data da Mariano Stabile e da lord Minto, venuto in Sicilia per presentare la proposta del re: esse, se avanzate alcuni giorni prima, forse sarebbero state accettate, ma, dopo la rivoluzione di febbraio, che a Napoli aveva rafforzato i rivoluzionari, la situazione in Sicilia aveva avuto una evoluzione in senso aristocratico, determinando il prevalere delle istanze autonomistiche antinapoletane.

Il parlamento iniziò i suoi lavori il 25 marzo e conservatori e radicali formarono un governo di coalizione presieduto da Ruggero Settimo. Nell’entusiasmo generale, che avrebbe soffocato la voce di qualunque dissidente, ove ve ne fossero, fu proclamata la deposizione di Ferdinando I e l’indipendenza della Sicilia, che si riappropriava dei diritti che da secoli le appartenevano e sostituiva il tricolore alla bandiera bianca borbonica. In questo clima di novita’ fu dichiarato che la Sicilia intendeva far parte di una federazione italiana di stati e, per confermare questa sua posizione, furono mandati simbolicamente un centinaio di siciliani in Lombardia per partecipare alla lotta di liberazione contro gli Austriaci. Questo sentimento di solidarieta’ fu espresso anche nei confronti della Toscana e di Roma con l’invio di bandiere e cannoni, ma esso non ebbe modo di realizzarsi, anche perche’ gli altri italiani guardarono con scetticismo alla Sicilia per le sue posizioni indipendentiste e separatiste.

Quando in Calabria vi fu un tentativo di insurrezione repubblicana, i Siciliani mandarono in aiuto una spedizione capeggiata da Ribotti, ma la sua esigua consistenza si spiega con la scarsa simpatia che i gruppi aristocratico-borghesi, leaders della rivoluzione siciliana, dovevano nutrire verso una rivoluzione democratica molto sbilanciata in senso sociale, mentre la rivoluzione siciliana aveva assunto un carattere conservatore e moderato. Nella Camera dei comuni, infatti, erano stati eletti anche tanti aristocratici, il che rappresenta una conferma della direzione politica conservatrice assunta dalla rivoluzione. Questo blocco dominante si opponeva a qualsiasi incisiva riforma in senso economico-sociale ed operava una difesa dura ed intransigente dell’assetto economico-sociale esistente.

Non furono, però, i problemi esterni a creare serie difficoltà ai rivoltosi siciliani, ma piuttosto quelli originati dalla netta divisione tra chi aveva obiettivi politici e chi perseguiva quasi esclusivamente scopi sociali. Inoltre i malavitosi spadroneggiavano, dal momento che i loro capi, come lo Scordato e il Di Miceli, erano investiti di funzioni di pubblica sicurezza ed erano autorizzati anche a giustiziare a loro arbitrio. Queste bande, che avrebbero dovuto avere una funzione di mediazione pacificatrice tra"berretti" e "cappelli", erano, invece, interessate al perpetuarsi di una situazione di conflittualità e di disordine, dove esse prosperavano, perchè, oltre ad essere pagate per le loro funzioni di polizia, operavano sequestri di persona ed estorsioni. A fronteggiare le squadre fu la Guardia Nazionale, così come era accaduto nel 1820, che ne arginò lo strapotere e contemporaneamente protesse la proprietà dalle rivendicazioni sociali. La Guardia Nazionale si configurò come milizia di classe, i suoi componenti non erano pagati e ne erano esclusi i lavoratori manuali. I suoi ufficiali erano per la maggior parte nobili, che provvedevano in proprio agli armamenti, mentre la parte popolare, insorta per avere miglioramenti sociali, perdeva l’iniziale entusiasmo, vedendosi messa da parte.

Le due componenti della rivoluzione giunsero a scontrarsi alla fine del mese di aprile nella Fieravecchia, dove la Guardia Nazionale dovette affrontare una banda armata capeggiata da una donna, pastora di capre, soprannominata Testa di Lana. La sua banda aveva chiesto ai capi della rivoluzione, per le sue prestazioni di pubblica sicurezza, il salario per 2.000 uomini, mentre ne contava qualche centinaio. I politici liberali volevano liberarsi delle squadre di malavitosi non soltanto perchè il loro potere era diventato intollerabile, ma anche perchè temevano che esse potessero imporre con la forza una riforma agraria, dal momento che per incitare i contadini ad unirsi ai rivoluzionari era stata loro promessa la distribuzione di terre e qualche uomo politico era del parere che bisognasse mantenere la promessa. Le squadre furono soppresse, ma, assieme ad esse, lo furono anche i clubs, che con le loro idee rivoluzionarie attaccavano i ceti abbienti sordi ad ogni forma di giustizia sociale.

La spaccatura in due della rivoluzione fu accentuata dall’emergere di preoccupanti sintomi di disagio, che colpivano molti settori della popolazione: declino del commercio, disorganizzazione del sistema giuridico in danno degli avvocati, disoccupazione per gli impiegati del dazio, collasso delle condizioni di pubblica sicurezza, sospensione della corresponsione degli interessi dei titoli governativi. In questo disordine imperversavano nei villaggi le bande di malavitosi estromesse da Palermo, che si davano ai saccheggi ed alle estorsioni in cambio di protezione.

La grande stagione rivoluzionaria del 1848 si era trasformata nell’affermazione e nel trionfo incondizionato del brigantaggio e in molti desideravano il ritorno all’ordine ed alla normalità. La Sicilia, però, dopo tanti anni di autoritarismo politico, non aveva maturato la capacita’ di organizzare un saldo ed efficiente governo costituzionale ed il dibattito parlamentare si concentrava su questioni concernenti le autonomie locali, senza che vi fosse il presupposto essenziale di una forte amministrazione rivoluzionaria. I sette ministeri che si succedettero dall’inizio della rivoluzione non riuscirono ad operare in tal senso e la rivoluzione finì con lo sfilacciarsi e con il perdere forza.

Il governo uscito dalla rivoluzione non emise provvedimenti di significativa incidenza sociale, ma si limitò a tentare di alleggerire la pressione fiscale, come nel caso dell’abolizione dell’imposta sul macinato, che fu, però, controbilanciata dall’aumento delle gabelle comunali. Un settore spinoso era quello delle finanze, in grave dissesto dal momento che i rivoluzionari avevano distrutto i registri fiscali e dall’inizio della ri
oluzione nessuno pagava più imposte. Restaurarne la riscossione era indispensabile per finanziare l’attività di governo, ma anche molto impopolare, infatti il ministro delle finanze Amari non ebbe il coraggio di prendere provvedimenti incisivi.

L’unico vero tentativo riformistico fu quello effettuato dal ministro delle finanze Cordova sotto il governo Torrearsa. Egli propose la concreta esecuzione del decreto borbonico del 1838 sulla censuazione dei beni ecclesiastici di regio patronato con la vendita di detti beni e l’emissione di carta moneta. Aristocratici e borghesi videro in questa proposta un attacco ai principi della proprietà e si opposero ad essa, ma si opposero anche i democratici, i quali, timorosi di possibili ripercussioni controrivoluzionarie del blocco dirigente, chiesero che la vendita fosse limitata ai beni di piena proprietà dello Stato con esclusione dei beni ecclesiastici di regio patronato. Nonostante il suo ridimensionamento la proposta presentava caratteri di grande novita’ in senso rivoluzionario.

Un altro punto debole del governo rivoluzionario erano gli armamenti, infatti, nonostante si prendessero iniziative plateali, come quella di fondere le campane delle chiese e le statue di bronzo del re per farne cannoni, non si faceva nulla per reclutare soldati e armarli. Quando Crispi propose la coscrizione obbligatoria, incontrò la generale opposizione del parlamento, che la riteneva incompatibile con il sentimento di libertà dei Siciliani. Il governo rivoluzionario, quando aveva respinto la proposta di Ferdinando I di concedere alla Sicilia un parlamento siciliano autonomo, aveva fatto credere al popolo che Ferdinando era stato battuto definitivamente ed era stata respinta anche la mediazione degli Inglesi, che cercavano di favorire una soluzione di compromesso tra Napoli e Sicilia. I Siciliani contavano sull’aiuto della Gran Bretagna e della Francia in difesa della loro indipendenza e speravano anche nell’aiuto di altri stati italiani, infatti offrirono la corona di Sicilia a Ferdinando, duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto, re di Sardegna, con l’obbligo di mutare il nome di Ferdinando in quello di Alberto Amedeo. Il principe, probabilmente consigliato dal padre, rifiutò l’offerta, tanto sospettosamente si guardava al desiderio di indipendenza della Sicilia, e a capo del governo rimase Ruggero Settimo.

Il 10 agosto l’armistizio di Salasco, che chiudeva la prima fase della prima guerra di indipendenza e che colpiva duramente il processo indipendentista nazionale italiano, determinava una crisi della linea democratica e moderata in tutta la penisola ed il prevalere delle forze controrivoluzionarie. In Europa Luigi Bonaparte prendeva il potere in Francia, prevaleva in Austria il partito militare. A Napoli il fallimento dei tentativi rivoluzionari repubblicani della Calabria determinò l’instaurarsi di un indirizzo restaurazionista.

L’intervento dell’esercito borbonico avvenne nel settembre del 1848 con lo sbarco a Messina; l’ammiraglio britannico e quello francese di stanza a Messina, preoccupati per la distruzione di proprietà appartenenti a stranieri, fecero pressione presso il re perchè concedesse un armistizio di 6 mesi. I Siciliani, però, non seppero approfittare di questa circostanza per organizzare la difesa e continuarono a sottovalutare la forza di Ferdinando I, infatti nel 1849 respinsero l’offerta reiterata di un parlamento e di un vicerè separati. Il comando delle esigue e disorganizzate forze siciliane fu affidato a Mieroslawski, giovane ed inesperiente, che tentò inutilmente contro l’avanzata delle forze borboniche la difesa di Catania, mentre le altre città dell’isola non opponevano resistenza, consapevoli della sua inutilità. I conservatori e la Guardia Nazionale, comandata dal barone Riso, si affrettarono a prendere le distanze dalla rivoluzione, di cui, tra l’altro, avevano sempre temuto i risvolti sociali, e i ministri si dimisero tutti. La Farina, Crispi e gli estremisti radicali, mentre il popolo issava la bandiera rossa e presidiava le barricate, pensarono di ricorrere alle bande armate del Di Miceli e dello Scordato per opporsi all’esercito borbonico, ma scoprirono che essi erano già stati assoldati dal barone Riso per difendere i proprietari dagli attacchi proletari. Il barone Riso si incontrò con il generale Filangieri per accordarsi sull’entrata a Palermo delle forze borboniche, mentre il popolo deponeva le armi e la bandiera rossa.

Si chiudeva, così, la rivoluzione del ’48, che pure aveva espresso valori progressisti e che aveva convogliato un consenso assai esteso. I fatti avevano dimostrato che la sola vera forza rivoluzionaria in Sicilia era rappresentata dal popolo, che mancava, però, di un programma politico e di capi in grado di organizzare un’azione rivoluzionaria di grande respiro. Aristocratici e borghesi finivano con l’abiurare le loro idee liberali dinanzi al pericolo della rivoluzione sociale. Come disse Crispi "i moderati temevano più la vittoria del popolo, che quella delle truppe borboniche". Un settore che univa insieme il programma politico e quello sociale era rappresentato da radicali come Crispi, La Masa, Pilo, Miloro, Carini, che, però, non avevano ancora il peso sufficiente per orientare l’azione di tutti i Siciliani, ma che, comunque, si erano fatti portavoce di istanze di patriottismo nazionale italiano, che certamente erano una novità foriera di ulteriori sviluppi nel quadro del Risorgimento italiano. Il consolidamento del blocco nobiliare-borghese sulla base della proprietà latifondista determinò l’allinearsi di tale blocco con le forze della controrivoluzione, ponendo fine alla resistenza rivoluzionaria con un improvviso voltafaccia, che somigliò ad un colpo di stato. Prevalse la paura di troppo avanzate riforme sociali e, quando il clima cambiò, la paura della controrivoluzione portò il blocco nobiliare-borghese ad una resa incondizionata nei confronti del governo borbonico. La tendenza moderata riformista entrava, però, in crisi in tutta Europa, segnando una battuta d’arresto nel cammino verso la libertà e la democrazia