Il Re Ferdinando II fu un re riformatore. Istituì nel 1831 l’istituto per lo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura; nel 1832 fu istituito un Ufficio Centrale di Statistica; nel 1833 fu fatto un nuovo censimento per aumentare il gettito dell’imposta fondiaria, ma dopo questi e altre riforme si scoraggiò dalle difficoltà incontrate e fu mandato in esilio nel 1835.
un immagine tratta dalla costituzione
Il nuovo re era nato in Sicilia e nei primi anni del suo regno vi si recò quattro volte. Gli storici descrivono Ferdinando II come un sovrano che, dopo avere adottato nei primi anni del suo regno fino al 1835 una politica riformatrice nei confronti della Sicilia, si lasciò scoraggiare dalle difficoltà incontrate e si abbandonò alla repressione, più che provvedere al rinnovamento. In realtà questa chiave di lettura sottolinea il dato obiettivo di un risveglio economico, culturale e sociale della Sicilia nei primi anni del suo regno, incoraggiato dall’operato del governo borbonico, risveglio che dette, poi, luogo alla spinta rivoluzionaria del 1848. L’opera di rinnovamento del governo borbonico, pur rivelandosi insufficiente, produsse, quindi, effetti di presa di coscienza e di attiva protesta rivoluzionaria.
Nonostante gli uffici locali continuassero ad essere riservati ai Siciliani, il sistema politico-amministrativo era molto centralista ed assolutista, di stampo peternalistico, con una stretto controllo degli “affari di Sicilia” da parte di Napoli, anche se il governo borbonico mutò spesso gli uomini ad essi preposti. Un cambiamento molto ben accolto dai Siciliani fu la destituzione di Ugo delle Favare nel 1831 e la nomina a luogotenente generale della Sicilia di Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, fratello del re. La presenza di un principe di sangue reale a capo dell’isola dette ai Siciliani la sensazione di avere un loro sovrano, che li facesse sentire autonomi, e fu proprio il rischio di un ruolo semiautonomistico della sua luogotenenza, unito ai suoi stretti rapporti con l’ambasciata francese, che indusse il re a destituirlo ed a mandarlo in esilio nel 1835, sostituendolo con Antonio Lucchese Palli, principe di Campofranco.
Ferdinando II introdusse in Sicilia riforme significative: nel 1831 fu creato un istituto per lo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura; nel 1832 fu istituito un Ufficio Centrale di Statistica; nel 1833 fu fatto un nuovo censimento per aumentare il gettito dell’imposta fondiaria, in vista di una possibile riduzione dell’imposta sul macinato; dispose che i giornali scientifici fossero recapitati senza pagamento di diritti postali; fece pubblicare dal governo un manuale di agricoltura, commissionato a Ignazio Sanfilippo dell’Università di Palermo, in cui si davano istruzioni pratiche su tutte le attività agricole e su quelle ad esse collegate. Nonostante i suoi interventi innovatori egli non riuscì a fare accettare ai Siciliani la loro dipendenza da Napoli, anzi crebbe l’opposizione degli aristocratici, che non gradivano l’aumento dell’imposta fondiaria, tanto più che questa classe sociale era in continuo incremento, dal momento che vi confluivano gli appartenenti alla classe media che riuscivano ad arricchirsi e che si facevano sostenitori delle idee di separatismo e di autonomia. Parimenti avverse gli furono le corporazioni artigiane palermitane, che egli tento’ di scardinare, sciogliendole.
Ferdinando II introdusse forme di controllo sugli uffici finanziari e pesanti multe per i colpevoli di malversazioni; era intenzionato a ridurre i dazi sugli alimenti ed a rendere più rigorosa l’amministrazione della giustizia, ma la fredda accoglienza delle sue riforme e la malcelata opposizione dei notabili lo scoraggiarono, tanto più che egli era pigro per natura.
Intensa fu la produzione legislativa per la Sicilia del governo borbonico, che, se intendeva intervenire per migliorare la precaria realtà isolana, non intendeva, però, mutare le basi del sistema e non riusciva, quindi, a dare alle sue riforme significative capacità di cambiamento. Attesissima era la riforma del catasto, da cui si attendeva la riduzione delle aliquote, che erano assai pesanti perchè calcolate sui rilievi del 1811. Essa ebbe inizio nel 1835, ma fu ultimata soltanto nel 1848-1850. Le riforme manifestarono la loro essenza di natura diametralmente opposta al rinnovamento intellettuale della società siciliana e, anzichè aumentare il consenso, aumentarono l’opposizione.
Dopo il 1835 non ci furono più provvedimenti innovatori per la Sicilia, fu instaurata la censura, furono chiusi i circoli, fu proibita la circolazione di libri stranieri. La condizione dei contadini divenne piùprecaria, creandosi, così, le premesse per una rivoluzione sociale, mentre la malavita imperversava con la protezione dei nobili, paralizzando le attività economiche, tanto più che la guerriglia del 1820 aveva messo in circolazione una grande quantità di armi. Il reato più frequente era l’abigeato, seguito dall’estorsione in cambio di protezione, ma molto comuni erano anche il contrabbando di alimenti, per frodare il dazio, ed il sequestro di persona, in cui spesso i preti, che sapevano leggere e scrivere in un popolo di analfabeti, erano costretti a fare da intermediari nella scrittura di lettere per le trattative del riscatto. I latifondisti erano, inoltre, costretti ad assumere criminali come guardiani dei loro terreni, se non volevano essere presi di mira dalla criminalità. Le bande di malavitosi erano, talvolta, in guerra per il predominio, mentre altre volte collaboravano tra di loro per la riuscita di un’impresa criminosa; erano presenti, poi, degli intermediari, che, dietro l’esborso di una somma di denaro, potevano ottenere la restituzione dei beni rubati. Non esisteva ancora il termine “mafia”, ma erano presenti tutte le sue attivita’ e la sua organizzazione.
In queste condizioni il controllo del territorio era assai difficile, anche se esistevano 25 compagnie d’armi, che pattugliavano la campagna con meno di 350 poliziotti per tutta l’isola. Esse erano formate da elementi reclutati privatamente, che stipulavano un contratto con il governo, in cui era prevista la corresponsione di un salario, ma, a volte, esse stesse estorcevano denaro in cambio di protezione o per la restituzione della refurtiva recuperata in collusione con i criminali. Per sconfiggere l’omerta’ in questa rete di malavitosi il re promise il perdono ad ogni brigante che ne denunciasse un altro e una ricompensa in denaro a chi uccidesse il capo di una banda.
Nonostante l’abolizione delle corti e delle giurisdizioni feudali, i tribunali funzionavano male, i giudici erano mal pagati, sicchè i migliori avvocati rifiutavano la carica, che magari era assunta da gente ignorante e corruttibile, che con le tangenti arrotondava l’esiguo stipendio. La stessa cosa avveniva per gli impiegati del tribunale, sicchè possiamo dire che l’esercizio della giustizia in Sicilia era pesantemente influenzato dal potere e dal denaro.