Dopo l’abolizione della feudalità i feudi divennero proprietà privata, costituendo così un vantaggio per i feudatari.

cartina del regno delle due sicilie sotto Ferdinando 1°

Un aspetto su cui i baroni si impuntarono imponendo le loro scelte fu il modo in cui realizzare il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento giuridico-costituzionale.
Fu proclamata l’abolizione della feudalità e i feudi divennero proprietà privata a tutti gli effetti, liberi anche dai vincoli degli usi civici, che furono aboliti senza indennizzo, tranne nel caso in cui fossero frutto di un contratto tra il signore e la popolazione. Di fatto gli usi civici furono aboliti, salvo che non intervenisse una sentenza del magistrato a dimostrarne l’origine contrattuale. Stato e baroni trovarono un punto d’accordo: lo stato avocava a sè la sovranità delle funzioni giurisdizionali feudali, i feudatari diventavano semplici proprietari terrieri, ma partecipavano alla gestione della cosa pubblica insieme al re nel nuovo sistema costituzionale. Una strana deroga fu fatta per i beni ecclesiastici, che furono dichiarati inalienabili, misura, forse, legata allo strascico di polemiche seguite all’editto del 1811 e, comunque, palese riconoscimento del ruolo conservatore della Chiesa nel nuovo ordinamento costituzionale.

L’abolizione della feudalità, lungi dal rappresentare un sacrificio degli interessi di classe, rappresentò un vantaggio per i feudatari, che, rinunciando alla giurisdizione feudale (merum et mixtum imperium), si sbarazzarono degli obblighi nei confronti del re e dei contadini e diventarono proprietari a tutti gli effetti dei loro feudi, che mai più sarebbero ritornati al re in mancanza di eredi. Diventarono proprietà degli aristocratici anche i feudi in cui erano in esercizio le lucrose miniere di zolfo, prima proprietà pubblica in quanto attinenti al sottosuolo, e ciò accadeva in un momento in cui la rivoluzione industriale faceva accrescere enormemente la domanda di zolfo, di cui la Sicilia deteneva allora il monopolio naturale nel mondo. L’abolizione della feudalità era stata caldeggiata anche dalla borghesia terriera, emersa durante l’occupazione britannica, periodo in cui si erano instaurate condizioni favorevoli all’agricoltura. Questi nuovi agricoltori, che detenevano fondi terrieri in enfiteusi o in gabella, avevano impiantato colture intensive più lucrative del grano, realizzando notevoli profitti, ed erano interessati alla privatizzazione della terra, che ne avrebbe loro consentito l’acquisto, non solo per una questione di prestigio, ma soprattutto di potere economico. La borghesia, dunque, fu molto contrariata dalla disposizione che dichiarava inalienabili i beni ecclesiatici, togliendoli, così, al mercato.

In conclusione il trapasso al nuovo ordinamento costituzionale vedeva la nobiltà riaffermare il proprio ruolo di classe egemone, che deteneva il monopolio politico ed economico della Sicilia a tutto danno dei contadini, spogliati degli usi civici, e della borghesia, privata del mercato dei beni fondiari ecclesiastici. Ma all’interno della nobiltà esistevano consistenti disparità di vedute anche all’interno di uno stesso schieramento, come appariva chiaramente a proposito della soppressione dell’istituto del fedecommesso su cui il parlamento, pur con un certo malumore, si espresse in maniera favorevole, ma che il Consiglio di Stato dove i costituzionali avevano la prevalenza, si rifiutò di ratificare. La questione rimase irrisolta e costituì un grave elemento di disgregazione all’interno del baronaggio. Molti nobili, infatti, tra cui il Belmonte, erano in attesa di ereditare feudi proprio grazie a questo istituto, e temevano, inoltre, che l’abolizione del maggiorasco, che ne sarebbe derivata, potesse infliggere un grosso colpo al predominio aristocratico.

L’abolizione della feudalità e la Costituzione del 1812, pur rivestendo in sede legislativa un significato di stampo liberale, non furono, comunque, ai fini sociali eventi molto incisivi, perchè nell’applicazione pratica sorsero molte questioni legali e tutte le decisioni importanti furono lasciate alle corti di giustizia, che non avevano sufficiente indipendenza di giudizio per pronunciarsi contro i feudatari. Emblematico del permanere di una certa situazione è l’uso dei termini: i latifondisti continuarono a chiamarsi "feudatari" ed i contadini "villani" fino al XX secolo. La Costituzione di tipo inglese applicata in Sicilia rimase, dunque, una sovrastruttura, accettata per motivi diversi da quelli di un sincero convincimento liberale, e lo stesso lord Bentinck espresse le sue perplessità al Balsamo, pur dando, infine, il suo assenso alla sua applicazione.

Quale ruolo abbia avuto la borghesia nell’elaborazione della riforma costituzionale non è facile documentarlo. In Sicilia non esisteva ancora una borghesia industriale e commerciale che avesse un ruolo incisivo, anche se a Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Trapani operavano industriali di consistente importanza. Aveva netta prevalenza la borghesia terriera, che aveva accresciuto i suoi interessi ed i suoi beni con l’alienazione dei beni gesuitici, ecclesiastici e demaniali, avvenuta nella seconda metà del ‘700. Bisogna, però, sottolineare che la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici andò in Sicilia a beneficio più della nobiltà che della borghesia, mentre l’analogo fenomeno, avvenuto nel regno di Napoli durante il periodo napoleonico, fu più a beneficio della borghesia che della nobiltà.

L’elezione dei rappresentanti alla Camera dei comuni fu influenzata dal principe di Castelnuovo, che, come ministro delle finanze, controllava le amministrazioni locali. Egli fece in modo che in parlamento giungessero esponenti della borghesia terriera e della nobiltà provinciale di orientamento nettamente liberale e democratico, questo allo scopo di bilanciare l’influsso della Camera dei pari, dove i conservatori avevano una presenza rilevante. Si deve, infatti, al braccio demaniale l’approvazione di articoli della Costituzione del 1812, che esprimevano principi molto avanzati sul piano dei diritti civili: libertà di stampa e di opinione politica, diritto di iniziativa popolare nel proporre leggi all’approvazione del parlamento, diritto di resistenza all’abuso di polizia, habeas corpus (istituto secondo cui nessun cittadino può essere arrestato senza ordine motivato dell’autorità giudiziaria, nè può essere detenuto senza l’emissione di un giudizio della magistratura). Si aprirono le porte della Camera dei comuni anche alla nuova borghesia, ma rigorosamente esclusi rimasero i contadini, mentre agli artigiani fu consentita una piccola rappresentanza scelta tra i consoli delle corporazioni di Palermo.

Il nuovo regime ebbe, quindi, come prevalente fondamento dell’attività economica la proprietà fondiaria, non più monopolio dei baroni, ma aperta anche ad un gruppo sempre più numeroso di borghesi. Questo compromesso non costituì un motivo di concordia nazionale, ma lasciò tutti scontenti. Del dissenso approfittò il re per riprendere ad operare una politica di tipo assolutista.