I rapporti giuridici relativi all’organizzazione produttiva dell’industria zolfifera erano basati sul regime fondiario: il proprietario affidava lo sfruttamento dei propri bacini zolfiferi ai cosiddetti “gabelloti” ed egli rimaneva, dunque, percettore di rendita per il solo fatto di possedere la terra mineraria.

Carrello abbandonato della miniera Trabonella di Caltanissetta

Carrello abbandonato della miniera Trabonella di Caltanissetta – Foto di Vincenzo Santoro

Lo sfruttamento dei bacini zolfiferi non fu quasi mai fatto dagli stessi proprietari, i quali, o per mancanza di capitali, o per mancanza di spirito imprenditoriale e di capacità tecnica, o per assenteismo, lo affidavano a terzi. Nel 1890 delle 480 miniere attive solo 52 erano coltivate direttamente dai proprietari (come nel caso degli Amico Roxas a Caltanissetta, dei Sapio Orlando a Naro e Licata, dei Volpe a Racalmuto e Cianciana).

Inoltre solo pochi avveduti proprietari lasciarono indivisi i campi minerari, dandoli in gabella a veri industriali per l’apertura di grandi miniere: i Lanza di Trabia per la Zolfara Grande e la Zolfarella di Sommatino, i Morillo di Trabonella per la miniera omonima a Caltanissetta, i Pignatelli Fuentes per la Tallarita a Riesi, i Pennisi per la Floristella a Valguarnera, i Sant’Elia per la Grottacalda a Piazza Armerina e pochi altri latifondisti. La maggior parte dei proprietari preferivano suddividere i bacini minerari per avere una rendita maggiore nel breve periodo, depauperando irrimediabilmente il giacimento.

I proprietari erano, in genere, nobili latifondisti, ma progressivamente le famiglie aristocratiche furono, in parte, soppiantate dai borghesi, con un processo analogo a quello che avveniva nel latifondo: se nel 1839 su 407 miniere (attive e inattive) la metà apparteneva a famiglie aristocratiche e ad ordini religiosi, nel 1894 un elenco redatto dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio mette in evidenza che su 449 miniere solo 1/3 erano di proprietà di nobiltà ed alto clero e nel 1909 su 308 miniere solo 90 appartenevano a famiglie nobili. Le dinamiche sociali investivano, dunque, anche il mondo delle zolfare con un processo di decadenza dell’aristocrazia e contemporanea ascesa del ceto borghese.

All’inizio del XIX sec. il tipo di contratto prevalente era il "partito". Il proprietario affidava lo sfruttamento della zolfara a "partitanti", che erano veri e propri locatori di opera e presentavano scarsi requisiti di solvibilità e di capacità tecnica. Costoro erano, spesso, dei semplici operai, che si contentavano di contratti annuali, raramente scritti. Il proprietario pagava ad essi il "partito", in cui erano comprese tutte le spese occorrenti per la coltivazione della miniera, e riceveva lo zolfo già separato dalla "ganga" (minerale di scarto). Il partitante aveva tutto l’interesse di ridurre al minimo le spese, per aumentare il suo margine, con grave danno del livello tecnico.

Verso la metà del XIX secolo, quando lo sfruttamento dei giacimenti zolfiferi fu organizzato a livello industriale con una larga divisione del lavoro e l’impiego delle macchine per una coltivazione più razionale, il tipo di contratto prevalente fu la "gabella". Essa era un contratto di appalto con cui il gabelloto si assumeva l’onere di eseguire tutti i lavori necessari per coltivare la zolfara nei modi prescritti dal proprietario con l’obbligo di riconsegnare con la miniera tutte le opere da lui eseguite, che potevano servire al proseguimento dell’esercizio. Il gabelloto doveva corrispondere al proprietario, a titolo di compenso, una quota del prodotto, che prendeva il nome di "estaglio" e che andava dal 25 al 40% della produzione.

Questo tipo di contratto era, senza dubbio, vessatorio, se si pensa che il proprietario percepiva una rendita così alta pur non spendendo nulla e non rischiando nulla. Talvolta il gabelloto dava, a sua volta, la miniera in sub-gabella e si costituiva, così, una catena di rapporti che inceppava l’andamento dell’industria.

La durata della gabella fu dapprima di 6-12 anni, ma più tardi, con l’approfondirsi dei livelli di lavorazione ed il conseguente aumento delle spese per le attrezzature tecniche, i contratti di gabella furono modificati: la durata fu prolungata a 20-29 anni, l’esercente fu lasciato più libero sul modo di condurre i lavori di coltivazione della miniera e gli estagli furono ridotti in media al 22% nel 1890, al 20% nel 1914, al 18% nel 1924, al 16% nel 1927.

I gabelloti erano, in genere, ex-capomastri sprovvisti di capitali, ma competenti nei lavori minerari. La loro competenza derivava dall’esperienza maturata nel corso dei molti anni trascorsi in miniera. Essi riuscivano a ridurre i costi di lavorazione ed a sopportare le gravose condizioni di contratto e di finanziamento mediante il loro assiduo controllo e la loro partecipazione materiale ai lavori.

Solo poche grandi miniere erano in mano di veri industriali. Alla metà del 1800 spiccava in primo luogo il gruppo dei fratelli Romeo, che avevano in gabella 41 zolfare, tra cui 23 dei duchi Notarbartolo a Villarosa, 12 del barone Pandolfi ad Agira ed ancora la grande miniera Floristella dei Pennisi a Valguarnera; la ditta Florio coltivava 26 zolfare, tra cui le zolfare della principessa di Pantelleria a Racalmuto e a Bompensiere, dei padri Benedettini a Sutera, del marchese Paternò a Raddusa; la ditta Gaspare Lo Giudice gestiva 27 zolfare nella zona di Aragona e Comitini e gestiva, inoltre, il vasto bacino minerario nisseno di proprietà delle famiglie Curcuruto e Giordano.

Alla fine del 1800 si affermò in Sicilia un gruppo di imprenditori settentrionali, tra cui spiccavano i nomi dell’ing. Giacomo Fiocchi, di Gedeone Nuvolari, di Diego Montagna, mentre rendita proprietaria e profitto industriale si intrecciavano nel caso degli Amico Roxas a Caltanissetta, dei Sapio Orlando a Naro e Licata, dei Volpe a Racalmuto e Cianciana.

L’attività dei gabelloti dello zolfo andava, però, soggetta all’influsso di vari fattori di carattere sia endogeno, che internazionale ed essi andavano in rovina con la stessa rapidità con cui si arricchivano. All’inizio del ‘900 molti degli industriali affermatisi alla fine del secolo precedente furono spazzati via da nuovi industriali, che ebbero anch’essi non più di 15 anni di attività, con un ricambio dai caratteri decisamente patologici.

Talvolta la miniera era assunta in gabella da una società imprenditrice, invece che da un singolo, ed invero la forma associativa era la migliore per affrontare un’attività così aleatoria e per approntare i capitali necessari per fornire di adeguate attrezzature tecniche le miniere.

La funzione sociale del proprietario era, dunque, quella di percettore di rendita per il solo fatto di possedere la terra mineraria. Il proprietario trovava molto più comodo riscuotere una rendita sicura senza alcun rischio, anziché tentare l’impresa mineraria, che è aleatoria e rischiosa. Questo atteggiamento era tipico del proprietario siciliano e si riscontrava non soltanto nei riguardi della proprietà mineraria, ma anche nei riguardi di quella fondiaria, i cui profitti non erano quasi mai reinvestiti nel miglioramento delle colture.

Il gabellotismo delle miniere era di grave danno all’industria zolfifera, perché il gabelloto aveva tutto l’interesse di sfruttare al massimo la zolfara con la minima spesa, a tutto discapito delle attrezzature tecniche e dei lavori di preparazione. Essendo, poi, la gabella di breve durata, relativamente alle caratteristiche dell’industria mineraria, i lavori di preparazione erano commisurati alla durata della gabella e non all’entità del giacimento. Il gabelloto non aveva interesse a fare costosi lavori di preparazione, dal momento che allo scadere del contratto doveva cederli senza alcun indennizzo al proprietario.

E’ chiaro, dunque, che il regime fondiario, che era all’origine dei rapporti giuridici relativi all’organizzazione produttiva dell’industria zolfifera, rappresentava il male principale del settore, perché ne impediva l’organizzazione su basi industriali e perpetuava le condizioni di sfruttamento dell’esercente da parte del proprietario.