La vita delle colonie greche: cultura, tradizioni, stili di vita e sistema sociale ed economico
Immagine raffigurante frutta e verdura e ortaggi posti su una cesta
La vita delle colonie greche non differiva da quella della madrepatria. Le case, in generale, avevano un cortile interno, sotto il quale era disposta la cisterna, talora artisticamente decorata.
Nel cortile
Si organizzava la vita – era come un serbatoio di luce, e serviva come riparo dal tempo; consentiva inoltre la comunicazione da una stanza all’altra, nonchè l’aerazione delle varie camerette, piuttosto oscure, che di solito ricevevano la luce soltanto dalla porta, quanto meno al piano terreno, dove per lo più dimoravano gli uomini.
Qua e là talune entrate erano protette da piccoli portici esterni: ciascun lato del passaggio era fiancheggiato da altari religiosi.
Il pianterreno
Conteneva, di solito, la sala da ricevimento, con altre stanze più piccole destinate ad usi diversi: senza dimenticare la cucina e talora i servizi più o meno sommari.
Il piano superiore era riservato alle camere da letto, che di solito comunicavano attraverso una galleria comune, sovrapposta ai portici.
Talune stanze, lassù, avevano finestre, e queste modeste luci fecero presto a trasformarsi in balconi. Ma è nella sala da ricevimento che si svolgevano i banchetti che rivestivano un’importanza notevole nella vita sociale dell’epoca anche perchè vi aveva una parte rilevante il vino rosso.
Il sistema sociale, culturale ed economico
Era fondato anche sulla produzione e sulla esportazione dei vini e di questo vi è traccia non solo nelle raccolte archeologiche dei musei ma anche negli scavi e nelle scoperte più recenti.
I contadini, dopo la raccolta dell’uva, deponevano i grappoli in cestini che venivano esposti al sole e all’aria per una decina di giorni.
I cestini erano infine messi all’ombra per cinque giorni e poi i grappoli venivano pigiati con i piedi in vasche d’argilla secondo una vera e propria cerimonia e, infatti, tale era considerata la vendemmia.
Il primo frutto della vite era il più sacro: si festeggiava, infatti, con processioni, musiche, canti e danze. Era anche una sacralità filosofica e non solo religiosa quella che accompagnava il neonato vino; il vino – come il miele – era offerto agli dei. E non poteva che essere così dal momento che la vite era un regalo degli dei, in particolare di Dioniso, agli uomini.
Dieta Mediterranea
Questo il mito che racconta la storia di tale dono: “il primo amore di Dioniso fu un ragazzo. Si chiamava Ampelo. (…). Dioniso ritrovò Ampelo insanguinato nella polvere, ma ancora bello. (…)
Dioniso ora piangeva, per Ampelo. Era il segno di un evento che avrebbe cambiato la sua natura, e la natura del mondo. (…).
Occorreva consultare le tavole di Armonia (…) Le Ore guardavano (…) Ganimede con una coppa in mano. Lessero l’immagine: Ampelo sarebbe diventato la vite. Colui che aveva portato il pianto al dio che non piange avrebbe anche portato delizia al mondo.
Allora Dioniso si riebbe. Quando l’uva nata dal corpo di Ampelo fu matura, staccò i primi grappoli, li spremette con dolcezza fra le mani, con un gesto che sembrava conoscere da sempre, e si guardò le dita macchiate di rosso. Poi le leccò.
Pensava: Ampelo, la tua fine prova lo splendore del tuo corpo. Anche morto, non hai perso il tuo colore rosato. (…) Era appunto ciò che mancava alla vita, che la vita aspettava: l’ebbrezza.” (*).
Ma l’ebbrezza non doveva essere smodata e perciò il vino pregiato non veniva mai bevuto puro, ma sempre mescolato ad acqua fredda o calda a seconda delle stagioni.
Perchè come dice Socrate nel Simposio: “(…) il vino irrigando lo spirito sopisce gli affanni come la mandragora gli uomini; e desta l’allegria come l’olio il fuoco (…). Ma come la pioggia moderata ricrea le messi e la troppo copiosa le prosta così fa il vino dei corpi umani“.
Le proporzioni della mescolanza erano diverse: Esiodo raccomanda tre parti d’acqua con una di vino. La mescolanza si faceva in un grande vaso, che era detto cratere, dove si attingeva per mescere nei bicchieri.
Il numero dei crateri dipendeva dalla resistenza dei bevitori. A questo proposito il comico Eubulo fa dire a Dioniso: “Tre crateri soli io mesco ai savi; il primo è di salute, d’amore e di piacere il secondo, di sonno il terzo; e questo bevuto sen vanno i savi a casa.
Il quarto non è più mio ma dell’eccesso; il quinto del baccano; di bagordo il sesto; il settimo delle ammaccature; l’ottavo da banditore; dell’ira il nono e il decimo di pazzia.”
A dirigere il simposio era scelto un capo, di solito coi dadi, e a lui spettava decidere le dosi della mescolanza, la grandezza e il numero dei crateri da bere, i giochi e tutte le buffonerie capace d’inventare, tra cui le multe per chi non rispettava le sue regole.
Brindisi, scherzi, giochi, suoni e canti allietavano il banchetto; con il bere aumentava l’allegria dovuta anche anche alla presenza di suonatrici e ballerine.
Dioniso: “Dioniso apparve, Ospite Sconosciuto, nella casa di un vecchio giardiniere dell’Attica. (…) gli spiegò che quel nuovo liquore era forse più potente del pane che Demetra aveva rivelato ad altri contadini, perchè sapeva risvegliare e sapeva addormentare, e scioglieva i dolori che trafiggono l’animo, li rendeva liquidi e fuggevoli. (…). Dioniso gli aveva insegnato a piantare e curare la vite.
Icario ne seguiva la crescita con lo sguardo amoroso che aveva per gli alberi, nell’attesa di poter spremere con le sue mani il succo. Un giorno sorprese un capro che mangiava le foglie della vite.
Sentì una grande furia e uccise il capro sul posto. (…). Icario lo aveva scuoiato, e indossando la pelle del capro ucciso aveva improvvisato una danza, insieme con altri contadini, intorno al corpo dilaniato della bestia. Icario non sapeva (…) che quel gesto era stato l’origine della tragedia (…)” (*).
Ganimede: coppiere degli dei.
Demetra: “Demetra si alzò per tornare all’Olimpo. Mentre la dea si allontanava nel suo lungo peplo turchino, il bianco orzo che si era celato malignamente nel suolo riapparve alla luce.
I solchi aridi diventano molli di terra grassa, mentre le foglie e i fiori tornavano a offrirsi al sole, come se nulla fosse successo e la natura si stesse sciogliendo pigramente da un lungo sonno”.
(*) Roberto Calasso Le nozze di Cadmo e Armonia Adelphi, Milano, 1988.
Tommaso Capezzone Marzo 1998
Immagine raffigurante fichi