Figlio primogenito del re di Aragona, Martino I il Vecchio e della sua prima moglie Maria de Luna, figlia del conte de Luna e signore di Segorbe, don Lope de Luna, e di Brianda d’Agaout.

L’arrivo nel marzo del 1392 dei sovrani Maria e Martino d’Aragona e di Martino il Vecchio, vicario generale del regno di Sicilia, fu accolto con favore da numerosi baroni e città, ma il consenso non fu unanime e a capo del dissenso si pose la città di Palermo che, punta nel suo spirito municipalistico dal pronto schierarsi di Messina dalla parte degli Aragonesi, si raccolse attorno ad Andrea Chiaramonte, conte di Modica, mentre contro gli Aragonesi si schierava anche l’Alagona; un velato dissenso espresse anche il clero nella persona degli arcivescovi di Palermo, Monreale e Catania, che guardavano con sospetto gli scismatici, nonostante le assicurazioni di fedeltà al papa di Roma.

La reazione di Martino di Montblanc all’opposizione dei baroni siciliani fu decisa: Andrea Chiaramonte ed Artale d’Alagona vennero dichiarati traditori e i loro beni confiscati, mentre gli Aragonesi posero l’assedio a Palermo. Dopo un mese di assedio Andrea Chiaramonte decise di recarsi presso il re per chiarire la sua posizione e Martino il Vecchio, con azione fulminea, il 7 maggio 1392 fece catturare il Chiaramonte, l’Alagona e Ludovico Bonit, arcivescovo di Palermo, e li fece processare per direttissima con l’accusa di preparare la sollevazione della città e l’uccisione del re. Andrea Chiaramonte, riconosciuto colpevole di lesa maestà, venne condannato a morte e giustiziato in Piazza Marina insieme al suo segretario Antonio delle Favare; la famiglia Chiaramonte venne dispersa: Martino aveva voluto dare un esempio ed un avvertimento a tutta la nobiltà isolana, per scoraggiare altri eventuali tentativi di rivolta.

Ma, paradossalmente, la crudeltà della sua condotta determinò una generale sollevazione antiaragonese, dal momento che apparve chiaro che i due Martini volevano creare una classe dirigente aragonese in Sicilia, togliendo beni e cariche a chi accennasse a ribellarsi, e questo scatenò un’ondata xenofoba, che imperversò per alcuni anni.

In questi anni la politica dei due Martini fu diretta ad eliminare i più pericolosi avversari con la confisca dei beni e la revoca dei privilegi, mentre sui fedelissimi e sui nemici domati, fossero essi spagnoli o siciliani, piovevano concessioni di ogni genere ed alte cariche laiche ed ecclesiastiche. Gettata la maschera, Martino sostituì i vescovi fedeli al papa con quelli aderenti allo scisma, mentre i due vicari rimasti fedeli, Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta, furono ricompensati con larghe cancessioni.

La situazione si esasperò fino a giungere al punto di rottura: dal giugno 1392 al luglio 1393 tutta la sicilia si sollevò contro gli Aragonesi, tranne Messina, che rimase ad essi fedele.

Molti erano i motivi alla base di questa sollevazione: innanzitutto i Siciliani si resero conto che, al di là degli interessi particolaristici, quella che stavano subendo era una dominazione straniera e lo spirito che aveva animato il Vespro risorse in loro; altro motivo fu quello religioso, infatti Martino il Vecchio, in chiaro contrasto con la sua professione di fedeltà alla Chiesa di Roma, aveva chiesto per il figlio l’investitura del regno di Sicilia all’antipapa Clemente VII. Il suo doppio gioco fu, allora, chiaro, anche perchè rimase senza risposta la richiesta del papa Bonifacio IX del giuramento di fedeltà della regina Maria, nè fu inviata a Roma l’ambasceria che doveva occuparsi di concordare con il papa gli interventi sulla situazione siciliana. Se a questo si aggiunge che i vescovi fedeli a Roma erano stati sostituiti con vescovi scismatici, si comprende come incisivo sia stato il ruolo giocato dalla religione nella sollevazione della Sicilia contro gli Aragonesi.

Il papa Bonifacio IX si espresse in termini violenti contro di essi, tacciandoli di essere un pericolo per l’ortodossia religiosa e per la libertà della Sicilia, e, spingendosi oltre, rivendicava la preminenza degli Italiani sui Catalani, definiti "barbari".

Il movimento xenofobo fu guidato a Catania alla metà del 1392 da Artale d’Alagona e dal vescovo Simone del Pozzo, mentre Martino il Vecchio, che intanto aveva fatto trasferire la corte a Messina, era affiancato da Guglielmo Raimondo Moncada, Guglielmo Peralta e Calcerando di Villanueva. Mentre il duca Martino poneva l’assedio ad Aci, tenuta da Artale d’Alagona, si ribellarono anche Guglielmo Peralta ed altri baroni del regno e, dietro a loro, le città di Palermo e di Agrigento. Nel mese di settembre si ribellarono Modica e Ragusa, in dicembre Caccamo, Castronovo e Marsala.

Lo scontro più importante tra i due contendenti avvenne a Castrogiovanni: ebbe la meglio il duca Martino, e Artale d’Alagona, i cui congiunti erano in ostaggio del duca nel castello Ursino di Catania, fece balenare la possibilità della sua resa, mentre, invece, segretamente intavolava trattative con i Visconti di Milano per averne l’appoggio. Martino si manifestò favorevole a trattare, anche perchè il regno era nell’anarchia generale: i baroni usurpavano terre e beni altrui non appena ne avevano il destro, mentre prelati fedeli a Roma e prelati scismatici si contendevano le sedi siciliane. La situazione era assai critica ed incerta, mentre i baroni costantemente in armi facevano temere per la sorte stessa del trono.

Il duca Martino, essendo insufficienti i soccorsi giunti dalla Castiglia, chiese aiuto al re Giovanni d’Aragona, suo fratello, il quale, però, impegnato in una spedizione in Sardegna e indolente di natura, temporeggiò a mandare soccorsi e nel frattempo i due Martini cercavano di limitarsi a fronteggiare la situazione, perchè per loro fortuna le forze dei rivoltosi mancavano di coordinamento e quindi la loro azione perdeva di efficacia.

Al centro dell’isola operava Guglielmo Raimondo Moncada, affiancato dai catalani Arnoldo di Cervellon e Francesco di Buntboyl; egli incontrò forti resistenze e fu costretto a ripiegare verso Messina, minacciata dai rivoltosi, mentre il duca Martino, continuando la sua politica dilatoria, in attesa dei rinforzi tentava la via della conciliazione con il papa; nella primavera del 1394 giunsero dall’Aragona i rinforzi.

La situazione sembrava evolvere a favore di Martino, quando si sollevò Catania, sollecitata dal vescovo Simone del Pozzo. E qui apparve chiara la disgregazione dei rivoltosi: mentre la città si sollevava, Artale d’Alagona ed i principali esponenti del baronaggio locale chiesero di trattare con il duca Martino, ottenendone un salvacondotto per abbandonare la città, che, lasciata indifesa dai baroni, chiese ed ottenne il perdono del duca, che, assieme al re ed ai nobili a lui fedeli, fece il suo ingresso trionfale a Catania, accolto dal clero e dal popolo festante, mentre la regina Maria usciva dal castello Ursino, dove era tenuta in ostaggio dall’Alagona. A fare le spese della sollevazione fu il vescovo Simone del Pozzo, che fu catturato.

Ma, se Catania era stata domata, la resistenza continuava nel resto della Sicilia ancora all’inizio del 1395, mentre la morte dell’antipapa Clemente VII alla fine del 1394 e l’elezione dell’aragonese Pedro di Luna con il nome di Benedetto XIII costringevano il duca Martino a togliere ogni ambiguità alla sua politica religiosa chiudendo il dialogo con il papa di Roma, Bonifacio IX. Questi sperava nell’azione di Carlo VI di Francia, che si era fatto promotore della composizione del grande scisma, ma, quando la sua azione fallì, rivolse la sua attenzione di nuovo alla Sicilia, che per la continua guerriglia versava in gravi difficoltà economiche: la crisi granaria costringeva il duca Martino a chiedere aiuti alla Calabria ed alla Castiglia.

Martino il Vecchio, alla morte di suo fratello Giovanni I d’Aragona nel 1395, fu chiamato a succedergli sul trono d’Aragona, e il giovane re di Sicilia, privo dell’appoggio del padre, che fino a quel momento era stato il conduttore della politica del regno, preferì chiudere la campagna siciliana venendo a patti con i baroni, che volentieri rientrarono nell’obbedienza alla corona, stanchi di combattimenti e speranzosi di poter strappare concessioni al re. La loro non fu una capitolazione, ma piuttosto un patteggiamento, mirato a consolidare i diritti comunque acquisiti in anni di guerre e di usurpazioni ai danni della corona e di terzi. Martino I cercò di bilanciare la ripresa del prepotere baronale con le forze cittadine; la conferma dei privilegi alle città, che furono riordinate dal punto di vista amministrativo, giudiziario ed economico, era un modo di crearsi una base di potere utile per contrastare i baroni, che rimanevano sempre una forza pronta a minare il potere del re.

Quando il 3 dicembre 1396 Martino il Vecchio lasciò la Sicilia per andare a prendere possesso della corona d’Aragona, il regno di Sicilia era ormai pacificato, tranne la città di Palermo, dove Enrico Chiaramonte, che teneva desta la resistenza, vistosi isolato, si arrese ed andò in esilio a Napoli, mentre gli Aragonesi entravano in città.

Martino il Giovane si presentava come il legittimo sovrano della Sicilia, infatti, abrogate le clausole del trattato con gli Angioini di Napoli del 1372, si era autonominato re di Sicilia, in ottemperanza alle decisioni di Pietro IV d’Aragona, che nel 1380 aveva vietato la successione femminile sul trono di Sicilia, in deroga alla legge salica, ed aveva ceduto i diritti sulla corona dell’isola a Martino, figlio del suo secondogenito Martino, duca di Montblanc; quest’ultimo sarebbe stato vicario generale del regno.

Non fu facile regnare per Martino I, perchè i molti anni di anarchia in cui la Sicilia era vissuta avevano scardinato il senso della legge e delle prerogative reali usurpate dai baroni. La feudalità siciliana era in misura consistente composta da nobili aragonesi, chiamati dai due Martini ad occupare vescovati, cariche governative, feudi.

Prima di partire per l’Aragona Martino il Vecchio nominò un consiglio della corona composto da baroni siciliani e catalani. La tutela del re fu affidata a Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Augusta e marchese di Malta, in seno al consiglio siciliani e catalani tentarono di accerchiare la corona e condizionarne l’operato, infatti nobili catalani come il grande ammiraglio Bernardo Cabrera e Sancio Ruiz de Lihori, figlio del governatore d’Aragona, che avevano ereditato i beni di baroni siciliani esiliati e si erano costituiti una posizione di grande potenza, polarizzarono la lotta per il potere a danno della corona.

Martino il Giovane, per affrancarsi dal servizio militare dei baroni, usufruendo dell’appoggio di alcune città, arruolò truppe professionali. Fece compilare un nuovo registro feudale, dal momento che i precedenti erano andati perduti o distrutti, e cercò di stabilire che il giudizio sui reati più gravi spettava esclusivamente alla corte del re, mentre in ogni caso doveva esserci il diritto di appellarsi al re al di sopra della giustizia baronale. Fece anche qualche tentativo di recuperare alla corona terre e prerogative usurpate dai baroni, mentre ripudiava la signoria feudale del papa e si considerava di diritto legato apostolico con la potestà di nominare i vescovi e di governare la Chiesa siciliana.

L’epoca dei due Martini, pur presentandosi deleteria sotto il profilo dell’indipendenza del regno di Sicilia, presenta interessanti risvolti sotto il profilo dell’organizzazione interna del regno, soprattutto per la rinnovata vitalità data all’istituto parlamentare. Martino il Giovane puntava sulle città e sull’azione del parlamento per restaurare la sua autorità. Il parlamento tenuto a Catania nel 1397 e quello tenuto a Siracusa nel 1398 riaffermarono le principali prerogative regie in campo giurisdizionale ed amministrativo. D’altra parte, però, le più alte cariche del regno erano saldamente in mano a vere e proprie dinastie nobiliari, che le detenevano ereditariamente, ed era difficile per il re intervenire per decidere sulla loro assegnazione.

Martino I dovette, però, accorgersi ben presto di non poter condurre una politica priva di condizionamenti, perchè il suo potere era notevolmente limitato da una parte dalla forza che i baroni rappresentavano, dall’altra dalla dipendenza progressivamente crescente dall’Aragona, condizione indispensabile per mantenersi indipendente da Napoli. Una via d’uscita poteva essere quella di dare più potere in parlamento ai rappresentanti delle città, sul modello inglese, scelta che Martino non volle operare; nè il parlamento di Catania del 1397, nè quello di Siracusa del 1398 riuscirono ad imporre il principio dell’indipendenza del regno.

Quando in Europa si delineavano i presupposti coesivi degli stati nazionali, la Sicilia perdeva progressivamente la sua fisionomia di stato indipendente e vedeva prevalere le forze disgregatrici, mentre diveniva sempre più un appendice del regno d’Aragona: era, infatti, Martino, re d’Aragona, che in Sicilia concedeva i feudi,dirigeva la politica ecclesiastica, finanziava le truppe.

Martino il Giovane non seppe prendere saldamente in mano le redini dello stato ed adottare le iniziative più opportune per restaurare la sua autorità. Sostenitore convinto dell’unione delle due corone d’Aragona e di Sicilia, rimase piu’ infante d’Aragona che re di Sicilia, anche perchè il padre lo aveva designato a succedergli sul trono d’Aragona.

Dal canto suo Martino il Vecchio dava origine ad una pubblicistica ufficiale, che legittimava la sua posizione personale e quella del figlio, considerando correggenti del regno di Sicilia i due Martini e la regina Maria, figlia di Federico IV. Anche quando Martino il Vecchio divenne re d’Aragona, continuò ad esercitare la sua autorità sulla Sicilia, arrivando a sconfessare il figlio nel caso in cui contravvenisse ai voleri paterni. Politica interna e politica estera della Sicilia erano dirette dall’Aragona e gli ambasciatori dell’Aragona trattavano gli affari della Sicilia presso Napoli, Milano e Tunisi.

La politica religiosa di Martino I fu ambigua come quella del padre, riconosceva, cioè, ufficialmente il papa di Roma, ma in realtà inclinava per l’antipapa. Quando nel 1398 un maldestro tentativo di Martino I di appoggiare l’antipapa Benedetto XIII fece riesplodere la rivolta in Sicilia, il re riuscì a reprimerla soltanto tornando all’obbedienza a Roma.

L’opposizione dei baroni siciliani esuli agli Aragonesi ebbe sempre punti di appoggio alla corte di Napoli ed a quella dei Visconti a Milano. Ladislao di Durazzo fu sempre dalla parte dei baroni siciliani, proprio perchè Luigi II d’Angiò, che gli contendeva il trono di Napoli, era dalla parte degli Aragonesi. Giangaleazzo Visconti continuava a sostenere la causa dei baroni siciliani con il miraggio di una corona reale, e vi fu un momento nel 1395 durante il quale sembrava ormai decisa una spedizione del Visconti in Sicilia, ma un peggioramento dei suoi rapporti con la Francia, che si era messa dalla parte delle città toscane nemiche del Visconti, lo indusse a desistere, nonostante si fosse assicurato l’aiuto di Genova.

La repubblica di Genova cercava di barcamenarsi tra le due opposte fazioni per non danneggiare i suoi interessi mercantili, mentre Venezia si conservava assolutamente neutrale, per non compromettere la rotta delle sue navi per le Fiandre, e nel 1400 firmò un accordo con Martino il Giovane.

La morte della regina Maria nel 1401 lasciò Martino I libero di contrarre un nuovo matrimonio politico ed il re d’Aragona impose al figlio il matrimonio con Bianca, figlia del re di Navarra, mentre i Siciliani avrebbero
oluto che sposasse Giovanna di Durazzo, sorella del re di Napoli.

L’ingerenza del re d’Aragona si spinse fino ad affidare al figlio nel 1408 la spedizione in Sardegna, per domarvi un’insurrezione che metteva in pericolo il suo trono. I baroni siciliani, lungi dal protestare per questa inopportuna richiesta, erano ben lieti di servirsi di questa guerra per realizzare notevoli profitti con i rifornimenti di grano, zolfo ed altro. I mezzi finanziari per la spedizione vennero approntati dalla Sicilia, che non era, peraltro, in grado di sostenere questo sforzo economico.
Martino il Giovane nell’ottobre del 1408 salpò per la Sardegna, affidando la reggenza del regno alla moglie, Bianca di Navarra, assistita da un consiglio di cui facevano parte i giudici della Gran Corte, i maestri razionali, il maestro portulano e sei deputati. Fu durante la campagna di Sardegna che il re morì, avendo contratto la malaria.