I “signori della pietra”, potrebbero essere definiti così gli abitanti dei monti Iblei, le basse montagne di bianco calcare che in gran parte si trovano all’interno dei confini della provincia di Ragusa.

Uno scorcio di Ragusa Hybla

Le morbide forme tondeggianti di quei rilievi sono state incise profondamente dalle acque di fiumi e torrenti, così da formare nei millenni un gran numero di profonde valli incassate che ne caratterizzano in maniera esclusiva il paesaggio: le “cave”.

Proprio al loro interno si sono sviluppati i primi nuclei di quelle culture millenarie che dalla pietra traevano tutto: ricoveri, utensili, sistemi di difesa.

I primi uomini che colonizzarono quei monti aspri, coperti da foresta primarie impenetrabili, trovavano nelle cave i luoghi dove potersi difendere meglio, dove trovare acqua, dove potersi muoversi più agevolmente per collegare la costa e l’entroterra. La più importante era la cava d’Ispica, lungo le cui pareti sono state scavati, nei millenni, castelli difensivi, condomini di grotte su più piani, necropoli, catacombe, luoghi di culto. Gli ultimi discendenti di quelle genti della “civiltà delle cave” hanno finito di abitarla solo poche decine d’anni fa, dopo la fine della seconda guerra mondiale, occupandola continuativamente , di fatto, per oltre 5.000 anni.

E’ forte il contrasto per chi arriva nel territorio ibleo da nord. Si passa quasi di colpo dalle nere pietre laviche dell’Etna ad un improvviso e continuo balucinio di pietre bianche che, a miliardi, formano ovunque muretti a secco di delimitazione, case, masserie, ovili, “mannare” (dove si ricoverano i bovini), magazzini. La materia prima si vede intorno davvero “ovunque”. Così chi ha vissuto in questo territorio ha da sempre avuto l’esigenza di “liberarsi” di quelle pietre per coltivare il suolo, far pascolare i propri armenti. Utilizzare in ogni modo possibile quel materiale di risulta è diventato, giocoforza, una necessità assoluta e, nel tempo, una vera e propria arte. In pochi altri angoli d’Italia la pietra grezza è lavorata eguagliando i livelli di rifinitura e di maestria raggiunti dagli scalpellini della provincia di Ragusa.

Usi a trattare quel duro calcare come fosse morbida argilla hanno plasmato nei secoli un insieme armonioso e preciso di costruzioni dall’eccezionale equilibrio di forme e dimensioni e un vero dedalo di muretti a secco che si estende per centinaia di chilometri.

Nei centri storici di Ragusa Ibla, di Modica, di Scicli, dove quella pietra un tempo era anch’essa solo bianca e immacolata, è stata ricoperta dagli intonaci di nuove case patrizie, di grandiose chiese e monasteri, costruiti dopo il terribile terremoto del 1693 che aveva letteralmente raso al suolo quasi ogni costruzione preesistente. Questi nuovi edifici sono state decorati da un rigoglio di sfarzose forme e addobbi barocchi che testimoniano un esigenza di rappresentatività e di censo insospettabili in quel profondo angolo della Sicilia meridionale.

L’isolamento di quelle contrade, protrattosi fino a pochi anni fa a causa di una rete stradale assolutamente “primitiva”, ha costretto in particolare la ricca nobiltà, a costruirsi intorno un mondo a propria immagine e somiglianza, una sorta di “isola nell’isola” che in parte esiste ancora oggi.

A Ragusa Ibla ci si riunisce ancora nelle sale ottocentesche del “Circolo di Conversazione” e i palazzi di famiglia sono ancora oggi in gran parte abitati dai discendenti di quella nobiltà. Esistono così dei veri e propri musei patrizi “non visitabili” perchè mobili antichi, arazzi, affreschi e opere d’arte, copiosamente racchiusi fra quelle antiche pareti, “servono” ancora ai proprietari.

Un eccezione è il castello di Donnafugata, sontuosa abitazione patrizia del barone Corrado Arezzo Des Puches, una figura davvero emblematica della nobiltà ottocentesca ragusana.

Quest’autentico gaudente si fece costruire al centro del suo feudo un vero e proprio castello (interamente di pietra bianca) con cento e più stanze e che oggi è possibile visitare, accompagnati da giovani e preparate guide che spiegano come si viveva nel castello al tempo del suo fulgore. Non in castelli ma in comodi e spaziosi “villini di campagna” sparsi nel contado, andava ad abitare la nobiltà iblea durante il periodo estivo e in autunno, quando si mieteva il grano, si raccoglieva l’uva. Quando la terra e i suoi frutti erano il traino economico delle società del tempo, Ragusa primeggiava per i suoi allevamenti di bestiame, la produzione di formaggio, le coltivazioni estese di frumento, di carrubo, le vigne, gli uliveti a perdita d’occhio strappati alla pietra, difesi dalla pietra.

Ciò che è rimasto, ed è tanto, del passato forma oggi un insieme d’attrazioni culturali e turistiche d’eccezione che rimangono poco conosciute, visitate, valorizzate, protette adeguatamente. Alla stessa stregua sono i prodotti tipici iblei. Il sublime caciocavallo ragusano (così chiamato perchè è stagionato legando le pezze di formaggio a due a due con una corda e appendendole “a cavallo” di una trave), l’olio extra vergine d’oliva finissimo, i sotto oli, i vini, la produzione di salumi, sono prodotti d’estrema qualità che però non hanno lo sbocco commerciale che potrebbero avere per la mancanza di una giusta promozione e valorizzazione. Ancora oggi negli iblei l’agricoltura e l’allevamento sono le principali fonti di reddito e il turismo, faticosamente, cerca di farsi strada con nuove iniziative.

Le più importanti sono quelle che negli ultimi anni vedono numerose masserie e villini di campagna restaurati e ristrutturati per realizzare ristoranti tipici, agriturismi e piccole strutture ricettive a “misura d’uomo”. La costa, purtroppo, ha il pesante fardello costituito delle seconde e terze case costruite malamente una sull’altra, in pochi decenni, dagli abitanti dell’attuale Ragusa (per loro non avere una casa estiva di proprietà o d’affitto sulla costa è un “non status simbol” imperdonabile).

Luoghi un tempo ameni come Scoglitti e Marina di Ragusa, oggi non sono più proponibili sul mercato turistico per una fruizione del mare al passo con i tempi. Si sono salvati qua e la alcuni tratti di costa di straordinaria bellezza come quelli protetti oggi dai confini della Riserva naturale della Foce del fiume Irminio, un oasi dove ci si può rendere conto di quale doveva essere l’aspetto dell’intera costa fino a qualche decennio addietro.

L’ecosistema costiero della Riserva naturale è ancora pressochè integro e presenta una macchia foresta fitta e rigogliosa formata da lentischi, ginepri, efedre, olivastri, fichi degli ottentotti che fermano al suolo le sabbie litoranee formando una fascia dunale ormai difficilmente osservabile altrove.

La costa originale sembrò particolarmente bella ed ospitale anche ai coloni greci che, nel 598 a.C., decisero di insediare una loro colonia in quest’angolo di Sicilia.

Scelsero un basso tavolato roccioso che s’incuneava nel mare vicino al fiume Ippari ma presto la città si estese nell’area circostante fino ad occupare una superficie di ben 190 ettari. Distrutta più volte è stata riportata alla luce parzialmente dagli scavi iniziati nel 1896 dal grande archeologo Paolo Orsi. Molto più a nord, su un cocuzzolo sui contrafforti del monte Lauro conosciuto da pochi, ci sono i resti, dell’Ibla più antica, distrutta da un terremoto in epoca medioevale.

Il mare, la cava, la montagna racchiudono l’essenza di questo grande territorio così atipico e diverso dal resto della Sicilia. Si conosce davvero poco e si frequenta ancora meno ed è davvero un peccato per la varietà di cose da vedere, da mangiare, da fare che offre.

Una carta vincente sarebbe quella di trasformare l’ex base militare della NATO di Comiso in un grande e attrezzato aeroporto civile.

L’isolamento atavico di Ragusa e degli Iblei finirebbe d’incanto ma questo è un sogno paragonabile, forse, a quello della realizzazione del ponte sullo stretto di Messina.