L’ambiziosa politica estera ed il mecenatismo misero a dura prova le finanze di Alfonso V, che erano tutt’altro che floride.

Le fonti di reddito della corona erano in Sicilia di vario genere: redditi derivanti dalle terre della corona, che erano piuttosto esigui, dato che il demanio non comprendeva più le foreste, le miniere e le coste, ma includeva, comunque, 50 città non infeudate dai baroni; proventi dei prodotti (soprattutto cereali) delle terre demaniali e della riscossione della decima; percentuali sulla pesca delle tonnare; imposte di successione sui feudi; imposta sostitutiva del servizio militare spettante al re da parte dei feudatari; dazi sulle esportazioni, soprattutto di grano.

La maggior parte di questi proventi appaiono legati a circostanze contingenti ed una cattiva annata poteva mettere l’erario in seria difficoltà mentre nelle buone anate la vendita del grano, soprattutto al Nord-Africa, faceva affluire in Sicilia oro, che veniva, però dilapidato per finanziare la politica estera di Alfonso. Il re trovava intollerabile l’incertezza di questi proventi, infatti in varie occasioni, per coprire il deficit, fu costretto a prendere denaro in prestito dai baroni, dalle citta’ e persino dal Bey di Tunisi.

Alfonso V, per procurarsi denaro sufficiente, ricorse in maniera sistematica alla "collecta", una tassa a cui per tradizione feudale si ricorreva soltanto in momenti di emergenza. Sotto i re spagnoli essa prese il nome di "donativo", ed era, comunque, subordinata all’approvazione del parlamento. A poco a poco questa tassa assunse cadenza regolare fino a diventare la voce più importante delle entrate demaniali.

Essa fu riscossa nel 1442, quando il re preparava la spedizione di Napoli; fu di nuovo riproposta nel 1446 prima per cinque e poi per otto anni, ed ancora nell’Ottocento essa era riscossa, nè fu mai da Alfonso mantenuta la promessa di ricomprare con i proventi di questa tassa terre e prerogative alienate dal demanio reale in periodi di necessità. La politica di Alfonso V fu improntata all’imprevidenza ed allo sperpero, che lo condussero a vendere imposte, uffici e diritti vari, spogliando la corona di prerogative essenziali per la sua esistenza e determinando una fuga di capitali, che impoveriva il regno.

Fu venduto a privati il diritto di coniatura delle monete; il fratello ed il figlio del re ottennero il privilegio di esportare il grano siciliano senza pagare dazio di esportazione; reati, anche parecchio gravi, ottennero l’impunità dietro l’esborso di cospicue somme. I debiti del re misero in pericolo anche la solidità delle banche, il cui sviluppo fu arrestato. In questo marasma i vicerè, che avrebbero dovuto rendere conto della loro amministrazione, non erano, invece, obbligati a tenere registri contabili ed in ogni caso potevano presentarli anche dopo vent’anni o seppellirli in archivio senza che fossero sottoposti a verifica.

Non era raro il caso in cui funzionari della corona si impadronivano di grosse somme, che rubavano al re, per poi prestargliele, oppure riscuotevano stipendi per uffici mai ricoperti; chi protestava per le appropriazioni indebite non trovava ascolto, dal momento che si rivolgeva a chi era connivente. Circostanze di carattere internazionale determinarono per l’economia della Sicilia una situazione assai sfavorevoli verso la metà del ‘400, quando le guerre imperialistiche della Spagna e la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi ridussero considerevolmente il volume dei commerci siciliani con l’Africa settentrionale e con i paesi del Mediterraneo orientale.

Le guerre richiedevano un impiego sempre crescente di capitali, dati i mezzi sempre più sofisticati con cui si combattevano: l’artiglieria era il nerbo dell’esercito, le fortificazioni dovevano essere in grado di resistere al fuoco dei cannoni, mentre le navi da guerra dovevano essere in grado di sostenere il contraccolpo di una bordata. La Sicilia mancava di capitali e questo determinava condizioni di arretratezza nella sua agricoltura. I baroni nei loro feudi, caratterizzati da colture estensive, sfruttavano i contadini, costringendoli a lavorare dall’alba al tramonto con salari da fame, ed inoltre rivendicavano la precedenza nella vendita dei loro prodotti rispetto a quelli dei loro concessionari. Essi inoltre, monopolizzavano la fornitura di determinati servizi, che si facevano pagare bene, come la molitura del grano, la panificazione, la macellazione, la produzione del vino e dell’olio.

Vani erano i ricorsi al re contro le vessazioni dei baroni, che, peraltro, disponevano di tribunali e di prigioni private; ma soltanto in pochissimi casi i contadini furono ascoltati ed il parlamento stesso era contro di essi quando cercava di convincere il re ad ampliare i poteri giurisdizionali baronali.

Se destinava cospicue somme alla politica estera, poco si curava della sicurezza pubblica, con il risultato che la pirateria minacciava le coste ed il banditismo imperversava nelle campagne. I contadini, per motivi di sicurezza, preferivano concentrarsi nei centri abitati, anche se erano lontani dai fondi che essi coltivavano, con la conseguenza della diminuzione della produzione granaria, scoraggiata dagli alti dazi per la vendita dei prodotti agricoli. La Sicilia, che prima era il granaio d’Europa, vide i contadini abbandonare la terra o adattarsi ad un’economia di sussistenza con frequenti e devastanti periodi di carestia.

Mancava nel tessuto sociale della Sicilia una classe media borghese, proprio perchè mancava uno spirito imprenditoriale diffuso, se si eccettuano i ricchi mercanti di L’ambiziosa politica estera ed il mecenatismo misero a dura prova le finanze di Alfonso V, che erano tutt’altro che floride. La società siciliana aveva una struttura tipicamente feudale, dove i nobili erano dediti allo sfruttamento estensivo della terra, rifiutandosi di investire in colture intensive e disdegnando il commercio e le attività imprenditoriali, anche se era diffuso l’esercizio dell’usura. I pochi professionisti, come ad esempio gli avvocati, erano asserviti ai clienti aristocratici, mentre tra i contadini solo pochi riuscivano a realizzare modesti profitti, che investivano prestandoli o realizzando piccole speculazioni, ma non avevano, comunque, un peso tale da modificare il corso della politica, che, anzi, essi stessi appoggiavano dal momento che la loro massima aspirazione era quella di comprare terra ed entrare nella classe feudale, diventando partecipi dei privilegi di cui questa classe godeva.

Quanto più si accresceva la potenza dei baroni, tanto più si indeboliva l’autorità delle città, dove, peraltro, le continue lotte tra fazioni opposte facevano apparire auspicabile la presenza di un potere forte in grado di garantire l’ordine. Molte città erano nelle mani dei baroni, ai quali il re le aveva vendute quando si era trovato a corto di denaro, senza avere, comunque, dato ad esse un’organizzazione amministrativa. I baroni, quindi, nominavano i funzionari civili e imponevano la tassazione nelle città, che avevano acquistato dalla corona, ma trovavano modo di esercitare il loro potere anche nelle città del demanio reale.

Nei casi in cui le città del demanio reale si appellavano al re contro lo strapotere dei baroni, non trovavano appoggio presso di lui, perchè il re non aveva interesse a rafforzare l’autonomia delle città ma, al contrario, gli tornava comodo, quando ne aveva bisogno, poter vendere in contanti ad un feudatario una città, che dava redditi con le imposte e l’amministrazione della giustizia, nonostante il re Martino avesse a suo tempo dichiarato illegale questa consuetudine. A volte le città erano in grado di riscattarsi, ma il re poteva venderle di nuovo (Vizzini fu venduta sette volte). Questo stato di cose vessatorio per i contadini diede non di rado origine a rivolte, che non erano, però, espressione di solidarietà delle varie classi sociali per l’autonomia municipale, ma erano, quasi sempre, generica espressione di disagio per l’eccessivo peso fiscale o l’insufficienza dei viveri.

All’interno delle città imperversava la lotta per il potere, per avere il controllo della ripartizione fiscale, dei redditi delle terre comunali, della nomina dei funzionari. Emblematica è la vicenda di Messina, la città economicamente più progredita della Sicilia e quella che godeva di maggiore indipendenza, dove la classe media inferiore e gli artigiani cercavano di tenere testa al ceto nobile, che monopolizzava il governo della città. Dopo un feroce scontro nel 1448-49 gli elementi popolari ottennero di avere loro esponenti tra i funzionari della città, ma l’attrito continuò egualmente, poichè, mentre i nobili erano per l’imposizione di tasse indirette sui generi di prima necessità, che ricadevano sui meno abbienti, gli elementi popolari volevano imposte dirette sui redditi mobiliari ed immobiliari. Il compromesso raggiunto si rivelò precario e durò soltanto fino al 1462, anno in cui i nobili ripresero nelle loro mani il controllo della citta’ e tornarono ad imporre i vecchi tributi.

La nascita di una classe media con interessi comuni era ostacolata, anche, dai conflitti esistenti tra le varie città: Messina, Catania, Palermo lottavano per avere il primato in Sicilia, la prima perchè ricca di commerci, la seconda perchè sede dell’unica università siciliana e residenza preferita dei vicerè, la terza per tradizione consolidata.

L’economia della Sicilia era dominata dalla presenza dei mercanti stranieri: catalani, genovesi, italiani, inglesi, ragusani della costa dalmata, che erano vassalli del sultano turco. A Trapani, il porto più vicino alla Spagna, era consistente la presenza di navi catalane, anche perchè il re d’Aragona spesso pagava i suoi debiti dando a mercanti catalani posizioni economiche di privilegio in Sicilia. Genova gareggiava con l’Aragona per il controllo del mercato granario e godeva in Sicilia di particolari privilegi, come l’esenzione dalle imposte locali, perchè i Genovesi che, oltre ad essere mercanti, erano anche banchieri, fornivano la Sicilia di buona moneta straniera; al loro prestito ricorrevano il re ed i feudatari. Anche altri mercanti italiani intrattenevano frequenti rapporti con la Sicilia: navi venete e toscane sostavano nei porti di Palermo e Messina, entrando in contatto con l’Inghilterra e le Fiandre.

I mercanti inglesi erano presenti in Sicilia in misura consistente e alla metà del ‘400 avevano un console a Trapani e uno a Messina. Un cospicuo gruppo di mercanti stranieri con sede in Sicilia era costituito da elementi provenienti da Ragusa, l’odierna Dubrovnik. Essi godevano di particolari privilegi perchè, pur essendo vassalli del sultano turco, erano protetti dal papa e svolgevano un ruolo di mediazione tra Islam e mondo cattolico. I re aragonesi riconobbero loro in Sicilia l’esenzione dai dazi doganali ed il diritto di ancoraggio gratuito. Alfonso morì a Napoli nel Castel dell’Uovo nel 1458. Egli lasciò il regno di Napoli al figlio illegittimo Ferdinando, detto Ferrante, mentre suo successore negli altri suoi regni, tra cui la Sicilia, fu il fratello Giovanni II, già re di Navarra.