Ferdinando I governò per circa sessant’anni e non fu un sovrano illuminato e progressista,ma fu spinto alla reazione dall’esperienza della rivoluzione e dell’esilio.

ritratto del primo ministro Luigi dè Medici

A seguito della restaurazione del 1821 operata a Napoli dagli Austriaci a sostegno dell’assolutismo di Ferdinando I, le truppe austriache presidiarono Napoli e la Sicilia per ben sette anni con un consistente aggravio per l’erario statale già dissestato per la crisi rivoluzionaria. Primo ministro dal 1821 fu Luigi dè Medici, che tornava saldamente al potere, mentre dal 1824 al 1830 luogotenente generale della Sicilia fu il marchese Ugo delle Favare, espertissimo nelle tecniche di polizia, usate anche nei confronti del suo stesso governo. Il sovrano sospese la costituzione, che pure aveva giurato, e parimenti disattese l’impegno preso nel 1816 di convocare il parlamento siciliano prima di introdurre nuove imposte, anzi del parlamento non si fece piu’ menzione alcuna. Le uniche concessioni fatte alla Sicilia riguardarono il campo fiscale con l’applicazione di una tassazione tra le piu’ basse in Europa. Fu sospesa, inoltre, la coscrizione obbligatoria e fu lasciato ai siciliani il monopolio degli uffici in Sicilia, dove non furono, inoltre, ripristinati i diritti di bollo e l’imposta sul tabacco. Le corporazioni, che erano state al centro della rivolta del 1820, furono abolite.

Il decennio 1821-’30 fu caratterizzato dalla depressione economica, conseguenza della guerra commerciale post-napoleonica, che penalizzava i paesi economicamente più deboli. I provvedimenti del governo furono blandi, anche se risponderti alla situazione, come la legge del 10 febbraio 1824 sulle soggiogazioni. La grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica era gravata da pesanti debiti, detti, appunto, soggiogazioni, risalenti ad epoche antiche e rimasti insoluti. I nobili avevano, infatti, garanzie legali, che salvaguardavano il loro possesso della terra anche quando essa era gravata da pesanti ipoteche, era, quindi, difficile per i creditori costringerli a pagare. Con questa legge, che stabiliva l’estinzione del credito con l’assegnazione forzosa di terre dei debitori ai creditori soggiogatari, avrebbe dovuto garantire mobilità e certezza alla proprietà fondiaria, semplificare il sistema ipotecario, determinare un vasto passaggio di terre nelle mani del ceto borghese, incoraggiando il sorgere di una nuova classe di proprietari non piu’ assenteisti, ma motivati ad una coltivazione più razionale e lucrativa della terra. In realtà le terre finirono nelle mani delle vecchie classi proprietarie, e cioè nobili, ecclesiastici, gabelloti, a cui per l’antichità delle soggiogazioni risalivano sia i debiti, sia i crediti.

Un graduale frazionamento del latifondo andava, però, attuandosi per la ricaduta di provvedimenti legislativi borbonici dell’ultimo decennio del Settecento e del primo ventennio dell’Ottocento. Andavano in tal senso anche le vendite effettuate da baroni in difficoltà finanziarie e l’abolizione del maggiorasco operata dal codice napoleonico in favore dei figli cadetti. Le coste settentrionali ed orientali della Sicilia videro il sorgere di coltivazioni intensive di vigne, aranci, olivi, mandorli, sommacco.

Rimaneva, però, radicato nelle famiglie nobili il senso del potere legato alla quantità di terra posseduta, di qui gli espedienti legali che miravano a ostacolare i matrimoni dei figli cadetti per far ritornare le terre alla famiglia e ricostituire l’integrità del patrimonio. Il feudo rimaneva, quindi, l’unità produttiva più diffusa,anche se non era più l’unica esistente, e spesso si estendeva con l’usurpazione dei diritti comuni dei contadini.

Sull’agricoltura aveva un effetto negativo la carenza di infrastrutture viarie, indispensabili per la commerciabilita’ dei prodotti. Nel 1824 il governo varò un piano di costruzioni stradali, ma l’esecuzione fu molto lenta ed il problema rimase. C’era, poi, il problema della caduta dei prezzi della terra e quello del peso fiscale, infatti l’imposta fondiaria era calcolata in base ai rilievi del 1811 e, quindi, non teneva conto della caduta del valore intrinseco del reddito fondiario. I proprietari preferivano non affittare le terre o le affittavano per riscuotere soltanto la somma sufficiente per pagare l’imposta. In una società prettamente agricola la depressione penetrava nel cuore dell’economia e richiedeva da parte del governo misure adeguate, che non arrivarono. Gli stessi provvedimenti positivi finirono con l’avere ricadute negative, perchè il problema di fondo era che il sistema borbonico funzionava quasi esclusivamente a favore di Napoli, riservando alla Sicilia blandi provvedimenti legislativi, certamente positivi e innovatori, ma insufficienti a determinare una svolta significativa.

In materia di proprietà terriera le disposizioni legislative erano sempre state aggirate mediante cavilli legali, in difesa di interessi costituiti. Nè le leggi dei vicerè Caracciolo e Caramanico, nè l’abolizione della feudalità nel 1812 avevano avuto una ricaduta significativa per difendere i diritti dei contadini. D’altronde questi diritti (il più diffuso era il diritto di pascolo), dove ancora sussistevano, rappresentavano un ostacolo ad una coltivazione razionale, perchè interferivano con i cicli produttivi, rischiando di danneggiare i raccolti. Sulla base delle esperienze del periodo napoleonico i Borboni cercarono di trasformare i diritti comuni o promiscui, altrimenti detti usi civici, stabilendo la corresponsione di un compenso per i beneficiari che ne venivano privati, ma le trattative erano quasi sempre complicate da risvolti legali e nelle procedure giudiziarie i contadini avevano la peggio, mentre i proprietari si appropriavano delle terre soggette agli usi promiscui dando indennizzi irrisori. Una legge del 1825 cercò di limitare l’arbitrio dei proprietari, ma il loro campo d’azione rimase sempre vasto per l’influenza che esercitavano nei villaggi, nei tribunali e nelle commissioni che dovevano decidere sugli indennizzi.

Dei feudatari che estendevano i loro diritti di proprietà solo alcuni operarono investimenti per migliorare la coltivazione della terra, mentre altri si limitarono ad estendere le loro riserve di caccia e di pesca a danno dell’agricoltura. E’ il caso del principe di Butera, che sbarrò un lago per incrementare la pesca e la caccia nei suoi feudi, trasformando in landa sterile una vasta zona fertile, o del principe di Villafranca che, accusato di appropriazione illegale delle foreste comunali, bruciò il bosco per sfida, dando luogo ad una causa che duro’ 74 anni.

Nel 1824 il governo varò un sistema doganale chiaramente protezionista con forte aumento dei dazi, ma, accogliendo le pressanti richieste dei Siciliani, riservò loro libertà di commercio con Napoli. Il regno borbonico nella guerra commerciale seguita alla caduta di Napoleone si trovava in condizioni di inferiorità nel libero mercato e rischiava di essere battuto dalla concorrenza straniera. In accoglimento delle pressanti richieste di gruppi industriali del Napoletano il governo aumentò i dazi sulle manifatture straniere, sperando, cosi’, di promuovere il processo di industrializzazione, ma suscitò le proteste del settore agrario, che subiva la rappresaglia straniera per le barriere doganali poste a difesa dell’industria nazionale. Il libero cabotaggio tra Sicilia e Napoletano fu visto dall’isola nel suo aspetto negativo, perchè la Sicilia poteva liberamente esportare materie prime industriali, mentre rigidi vincoli daziari gravavano sul percorso inverso; essa rimaneva, inoltre, esposta alla rappresaglia straniera sulle esposizioni agricole. In realta’ era l’arretrata struttura dell’economia agraria isolana che rendeva insostenibile l’onere dell’imposta fondiaria, dell’imposta sul macinato e delle imposte di consumo locali, nè il governo restituiva al paese parte di tali somme impiegandole in infrastrutture produttive.

L’esercizio del governo del regno borbonico era in Sicilia non privo di ostacoli, dal momento che esso non seppe creare un’efficiente burocrazia. Il controllo sull’applicazione delle leggi era difficoltoso per la lontananza dell’amministrazione centrale, e ex-feudatari, gabelloti e guardiani costituivano spesso l’unica forma di governo locale, che si interponeva tra proprietari e contadini, tra cui non c’era nessuna forma di contatto. In città conservavano una larga fetta di potere le corporazioni artigiane che, anche se soppresse in teoria, in pratica continuavano ad esercitare un consistente potere, grazie, anche, alle molteplici relazioni di parentela che legavano i loro appartenenti.

Le deficienze amministrative rendevano possibile ai proprietari terrieri il sottrarsi al pagamento dell’imposta fondiaria, mentre continuavano ad imporre ai contadini balzelli di origine feudale, con il risultato che gli ex-feudatari guadagnarono, anzichè perdere, dall’abolizione della feudalità. Non ci fu trasformazione dei latifondi e dei rapporti tra proprietari e contadini, ma, al contrario, si crearono le premesse per successive sanguinose rivolte contadine.

Il periodo della restaurazione fu caratterizzato anche da una fase di stallo nel settore della cultura, perchè la congiuntura economica influenzava tutti i settori della vita sociale; si guardava più al passato che al futuro ed il sentimento dominante era l’avversione a Napoli.

Ferdinando I morì nel 1825 dopo sessant’anni di regno. Egli non fu un sovrano illuminato e progressista, ma fu spinto alla reazione dall’esperienza della rivoluzione e dell’esilio. I meriti da ascrivergli riguardano il campo sociale, infatti introdusse nell’istruzione i nuovi metodi di Bell e Lancaster, oltre a quelli del De Cosmi; adottò provvedimenti per combattere la malaria nelle campagne; a quattro anni dalla pubblicazione delle ricerche di Edoardo Jenner invitò in Sicilia un medico inglese perchè desse dimostrazione del nuovo metodo di immunizzazione dal vaiolo e, contro il parere dei medici siciliani, ordinò che fosse aperto un ambulatorio in ogni villaggio per praticare la vaccinazione obbligatoria, sottoponendovisi egli stesso.