Alla morte del Caramanico per compiacere i nobili siciliani non fu nominato un vicerè, ma l’amministrazione dell’isola fu lasciata all’arcivescovo di Palermo e Monreale Filippo Lopez y Royo, in qualità di presidente del regno. In contrasto con l’emergere delle forze reazionarie l’opposizione si radicalizzò su posizioni di tipo giacobino, anche se in Sicilia, a differenza che a Napoli, l’attività cospirativa incontrava difficoltà insormontabili nel legame esistente tra classe dominante e rappresentanti di governo e nell’inesistenza di legami tra la classe intermedia, peraltro poco numerosa, e i contadini, che rappresentavano la maggioranza della popolazione. La posizione geografica della Sicilia, inoltre, la teneva isolata dal contesto internazionale, a cui era legata soltanto dai canali ufficiali, sicchè i simpatizzanti siciliani della rivoluzione francese, come Emanuele Rossi, Giovanni Gambini, Alfio Grassi, emigrarono all’estero.

Un punto nodale per il regno delle Sicilie fu il 1798, anno in cui scoppiò la guerra con la Francia ed il re borbonico si trasferì con la sua corte in Sicilia sotto la protezione degli Inglesi. La rivoluzione napoletana fu autenticamente giacobina, infatti venne proclamata la repubblica ed i sovrani dovettero fuggire. I baroni siciliani colsero l’occasione per dare calda accoglienza ai sovrani, accarezzando la speranza che la Sicilia potesse di nuovo divenire sede di regno, come ai tempi dei Normanni. In poco tempo furono armati 10.000 soldati che, uniti ai resti dell’esercito napoletano, costituirono la nuova armata borbonica. Il sovrano, da parte sua, solleticò l’amor proprio dei baroni siciliani chiamando loro rappresentanti a far parte del governo.

In contraddizione con l’atteggiamento favorevole dei baroni scoppiò in Sicilia nel 1799 una rivolta di vaste proporzioni dai contorni incerti: ne furono promotori militari di basso grado, guidati dal maresciallo Jauch, e artigiani, tranne quelli di Palermo, Catania, Messina. Il focolaio più importante fu a Caltagirone e, anche se non risulta che i contadini fossero tra i rivoltosi, certamente non vi fu la loro opposizione, dato il loro numero preponderante rispetto alle altre categorie. La rivolta dette la prova che le classi dominanti non detenevano il controllo della situazione; apparve, comunque, strano che esse non avessero avuto sentore dei preparativi della rivolta ed il re sospettò una loro convivenza, ripristinando il precedente clima di sospetto, tanto più che la Repubblica Partenopea era caduta e che i sovrani avevano fatto ritorno a Napoli.

La rivolta del 1799, repressa duramente nel regno delle Sicilie, fu la testimonianza più significativa dello scollamento esistente tra Napoli e la Sicilia, infatti, mentre a Napoli il fronte giacobino fu ampio, in Sicilia furono pochi quelli che parteciparono alla rivoluzione; in entrambi i paesi, però, dopo la dura repressione si realizzò un distacco netto tra monarchia e riformisti, ma, mentre a Napoli si manifestò con il volontario esilio dei napoletani dissidenti, in Sicilia il clima di dissenso rimase in sottofondo, alimentato, tra l’altro, da improvvide decisioni del re, che urtarono la suscettibilità dei Siciliani. Una di queste fu il dono del titolo e dell’appannaggio della ducea di Bronte (che non era demanio dello stato, ma apparteneva ai brontesi), che il re Ferdinando fece al Nelson. Non vi furono aperte opposizioni, ma celato malcontento, che si manifestò quando nel 1806 il re e la corte ripararono nuovamente in Sicilia per non sottostare al dominio francese.