L’estrazione e la lavorazione dello zolfo nel settecento e nella prima metà dell’ottocento avvenivano in maniera primitiva e rudimentale. Il minerale si estirpava in superficie attraverso l’escavazione di pozzi di piccola profondità
Castelletto metallico della miniera Gessolungo di Caltanissetta – Foto di Dafne Russo
Quando si esaurivano i giacimenti a fior di terra, era necessario scavare dei pozzi via via più profondi, trovandosi ad affrontare problemi nuovi, come l’eduzione delle acque e l’areazione.
La prima fase di lavoro in una maniera era la ricerca del giacimento. L’estrazione e la lavorazione dello zolfo nel settecento e nella prima metà dell’ottocento avvenivano in maniera primitiva e rudimentale. Il minerale si estirpava in superficie attraverso l’escavazione di pozzi di piccola profondità.
Essa avveniva in maniera molto semplice: seguendo gli indizi forniti dall’acqua sulfurea, in gergo mintina e da massi impregnati di minerale, il cosiddetto briscale o vriscali di surfaro, si effettuava l’escavazione di un pozzo profondo qualche decina di metri.
Si procedeva quindi all’esame del minerale che veniva fuori per accertare la convenienza dell’installazione della zolfara: una ganga contenente minerale nella proporzione del dieci per cento veniva considerata povera, mediocre se la percentuale superava il quattordici per cento, ricca in fine se avente il rapporto del ventiquattro per cento o più.
Accurata la convenienza dell’impresa, la prima cosa da fare era quella di scavare la discenderia. Questa era munita in superficie di un cancello di ferro da chiudersi nei periodi di inattività, onde evitare che fossero guastate le opere o trafugati gli arnesi.
Si procedeva quindi allo scavo delle gallerie orizzontali, la cui volta era sostenuta da pilastri di minerale, le cosiddette culonni, lasciati appositamente per evitare crolli, ed aventi uno spessore che poteva raggiungere anche i sei metri. Tra un pilastro e l’altro si trovava il campo d’azione affidato al picconiere e ai suoi aiutanti, cioè carusi e gli spisalora; questi ultimi avevano il ruolo di manovali e alcune volte venivano pagati come i carusi direttamente dal picconiere.
Castelletto in legno della Miniera Floristella in provincia di Enna
Il lavoro si svolgeva nelle posizioni più strane, dovendo il picconiere lavorare in piedi, in ginocchio o sdraiato a seconda delle esigenze dettate dallo strato geologico.
Quando la lavorazione si svolgeva a più piani, era necessario che le colonne di un livello corrispondessero esattamente a quello di un altro, che fossero cioè a chiummu, mentre la loro sezione doveva essere gradualmente accresciuta nei livelli inferiori, poiché il peso sostenuto era tanto più grande quanto maggiore era la profondità.
Oltre al sistema per vuoti descritto si utilizzava anche il sistema per ripieni, noti col nome di inchimenta. Si procedeva abbattendo il minerale esistente tra le gallerie parallele e complanari precedentemente scavate, sostituendolo con materiale scartato sul posto o all’occorrenza fatto prevenire dall’esterno, ottenendo così il consolidamento necessario a vincere la pressione delle rocce sovrastanti.
Ci si preoccupava di eseguire i ripieni con grande diligenza, pressando fortemente il materiale senza lasciare alcun voto tra la volta della roccia sovrastante e il ripieno, poiché bisognava evitare il brusco movimento degli starti superiori che, obbedendo al loro peso, dovevano necessariamente abbassarsi.
Il sistema per ripieni era il migliore per utilità, sicurezza, ed economia; esso dava infatti la possibilità di estrarre tutto il materiale che s’incontrava, mentre la sicurezza risultava maggiore come pure la solidità, il che serviva ad evitare i tanti disastri che si verificavano nelle coltivazioni per vuoti; nello stesso tempo si risparmiavano le spese necessarie alla manutenzione e all’armamento delle gallerie.
L’estrazione si effettuava a spalla: gli accessi ai sotterranei erano costituiti comunemente da gallerie inclinate o discenderie, con scalini per il transito degli operai. Se l’inclinazione era moderata, gli scalini si estendevano per tutta la larghezza della galleria; quando l’inclinazione era forte, ogni gradino era composto da due tratti, uno più elevato dell’altro, così da ottenere due alzate nello spazio di una pedata. In questo caso i gradini si definivano rotti.
Discenderia a gradoni sani all’interno di una miniera di zolfo
Questi accorgimenti servivano ad agevolare il lavoro dei carusi che trasportavano il minerale all’esterno della miniera e che percorrevano queste gallerie decine di volte in un girono; ma non si trattava di solidarietà nei confronti di questi poveracci, comunque sfruttati ai limiti dell’umano, quanto della ricerca di una maggiore produttività: un maggior numero di viaggi corrispondeva ad una maggiore quantità di minerale estratto.
Questo metodo di estrazione fu utilizzato fino all’immediato dopoguerra, in quanto nelle piccole zolfare non era certo conveniente istallare gli impianti meccanici che col loro costo avrebbero superato il valore dell’intera miniera. Il primo esempi di escavazione di un pozzo o buca d’estrazione si ha intorno al 1863 nella zolfara Stazzone-Caico di Montedoro; tale pozzo era profondo 40 metri, con un diametro di2,50 metri e l’interno era rivestito in muratura a malta di gesso dello spessore di 50 centimetri. L’estrazione era affidata ad un argano di legno messo in movimento da due cavallo.
Negli anni settanta cominciarono ad essere introdotti i primi piani inclinati con sistemi di careggio e i pozzi d’estrazione completi di castelletti e argano, perché decisamente più sicuri e convenienti, soprattutto in quelle miniere dove l’estrazione avveniva a notevole profondità.
I piani inclinati utilizzati più frequentemente in Sicilia erano quelli a doppio effetto, che comprendevano generalmente un doppio binario con una grande puleggia franabile a monte dalla quale passava una fune che trainava i vagoni. La puleggia era azionata da un motore inizialmente a vapore, poi elettrico.
Su un binario i vagoni scendevano e sull’altro salivano; generalmente si metteva a profitto il peso dei vagoni, facendo scendere quelli carichi di rosticcio utile al consolidamento delle gallerie e risalire quelli vuoti. Nel caso in cui dovevano risalire dei vagonetti carichi, entrava in funzione il motore.
Una grande evoluzione tecnologica venne introdotta con l’adozione dei castelletti.
Castelletto in legno della miniera Testasecca di Caltanissetta con cui veniva estratto lo zolfo
Questi avevano il compito di dare appoggio alle guide fino a qualche metro sopra la bocca del pozzo, e di sostenere le mollette sulle cui pulegge passavano le funi di sostegno delle gabbie che avevano il compito di trasportare i vagoni e alcune volte gli operai.
Sezione del pozzo Santa Teresa della zolfara Iuncio Testasecca
I primi castelletti erano di legno (generalmente di castagno) e avevano altezze variabili da 5 ai 10 metri. L’impianto era costituito da quattro robusti montanti collegati tra loro da fasciami di legno orizzontali e fissati a pilastrini in muratura ancorati a terra. Un motore a vapore faceva girare l’asse delle bobine; una delle funi si avvolgeva sollevando una gabbia mentre l’altra si avvolgeva facendo discendere un’altra gabbia. Lungo tutta la colonna del pozzo erano disposte delle guide in legno o ferro, costituite da ritti a sezione rettangolare, collegati per tre lati alle gabbie attraverso delle staffe metalliche. In tal modo i montacarichi potevano spingersi ad una certa velocità senza oscillare o urtarsi tra loro. Il sistema era naturalmente dotato di un freno.
Pregevoli castelletti in legno erano collocati nel pozzo Santa Teresa della miniera Iunicio Testasecca presso Caltanissetta e in varie altre miniere tra cui la Lucia di Agrigento.
Castelletto in muratura della miniera Grottacalda di Enna
Non mancavano casi in cui i castelletti erano costruiti in muratura; essi differivano dalle strutture precedenti soltanto perché i montanti erano sostituiti con dei muri a forma di trapezio rettangolo. Esempi di tali impianti sono presenti ancora nel pozzo Fiocchi della miniera Grottacalda(EN), e nella miniera Sartorio di Lercara.
Prospetto di installazione della macchina d’estrazione dello zolfo: Torretta delle puleggie – Castelletto in muratura della miniera Grottacalda di Enna
Ulteriori innovazioni tecnologiche portarono alla fine dell’ottocento alla costruzione di castelletti in ferro, poi sostituiti con l’acciaio, ed all’impegno dell’energia elettrica che soppiantò la vecchia energia a vapore. Nel 1898 comparve il primo impianto d’estrazione con motore elettrico alla miniera Tallarita di Riesi.
Castelletto in ferro sul pozzo Luttazzi (1905) della miniera Trabonella di Caltanissetta
Questi impianti fissi erano costituiti da quattro montanti, opportunamente contrastati tra loro da due puntoni o gambe di forza. Delle prime strutture in ferro nulla o quasi è rimasto, a causa dell’estrema deteriorabilità del materiale, che se quasi tutte le miniere erano dotate di questo tipo di castelletti, dalla Trabonella di Caltanissetta (pozzo Luzzatti) alla zolfara Grande di Sommatino (pozzo Principe), dalla zolfara di Lercara Friddi (pozzo Unione) alla Ciavalotta di Favara.
L’ultima generazione di castelletti in ferro ebbe maggiori dimensioni (fino a 28-30 metri d’altezza) e fu completamente automatizzata. Notevole era l’impianto della miniera Giumentaro, del tutto uguale a quello della miniera Gessolungo_Tumminelli, entrambi progettati dall’ing. Plinio Piccardi nel 1865.
Sezione del Castelletto in ferro progettato dall’Ing. Plinio Piccardi nel 1865
La struttura era dotata di due skips posti sotto la gabbia per la risalita degli operai e degli strumenti, che trasportavano il minerale dal cantiere d’abbattimento nel sotterraneo ai silos di raccolta, posti nella parte superiore del castelletto d’estrazione; da lì, lo zolfo veniva trasferito con nastri trasportatori prima ad un frantoio dove il minerale veniva frantumato e poi ai silos di stoccaggio, da cui si poteva automaticamente caricare il materiale sui camions per il trasporto.
Castelletto in acciaio della miniera Floristella di Enna |
Castelletto in acciaio della miniera Bosco di San Cataldo in provincia di Caltanissetta |
Nell’immediato dopoguerra furono sperimentati i castelletti in cemento armato per delle convenienze economiche ma ben presto ci si accorse che questi duravano meno; infatti le vibrazioni trasmesse dal movimento e dagli arresti delle gabbie e degli skips provocavano delle crepe nella struttura cementizia, favorendo le infiltrazioni d’acqua che raggiungevano l’armatura metallica ossidandola in breve tempo e alterandone quindi le caratteristiche statiche. Questi inconvenienti tecnici non favorirono quindi la diffusione di tali strutture.
Castelletto in cemento armato della miniera Gessolungo di Caltanissetta
Un impianto del genere funzionò dal 1938 fino ai primi anni ottanta nel pozzo Montecatini della miniera Bosco di San Cataldo. Un castelletto a schiena d’asino in cemento armato fu impiantato nel 1940 nella miniera Grottacalda di Piazza Armerina.
Castelletto metallico di un pozzo con ascensore