La Sicilia nel 1816, con lo scioglimento del parlamento e l’abolizione della Costituzione del 1812, tornava ad essere unita al continente nel Regno delle Due Sicilie (la bandiera siciliana fu sostituita da quella napoletana), dopo esserne stata separata per trent’anni, da quando Napoli e la Sicilia avevano seguito strade diverse in campo politico, economico e sociale. Queste diversità incideranno sul futuro del nuovo regno condizionandone l’evoluzione storica.

Il regno di Napoli negli anni precedenti all’unificazione con la Sicilia aveva seguito una politica antifeudale, che aveva fatto compiere un significativo passo in avanti alla borghesia ed aveva determinato la comparsa di una classe di medi e piccoli proprietari, pur restando sostanzialmente inalterate le condizioni dei ceti rurali subalterni, espropriati dei loro antichi diritti e privi di una nuova collocazione nelle strutture agrarie. La politica successiva al 1816 non si discostò da questo indirizzo, rappresentando per Napoli una linea di continuità.

Ben diversa era la situazione della Sicilia, che antecedentemente al 1816 aveva imboccato la via costituzionale sul modello inglese e aveva rafforzato lo spirito di indipendenza dell’isola e le autonomie locali. La feudalità, nonostante l’abolizione dei diritti feudali del 1812, rimaneva la classe egemone, detenendo il monopolio del possesso fondiario, infatti la fase esecutiva di detta abolizione era stata tale da lasciare inalterate la distribuzione della proprietà e le strutture produttive.

L’impatto di Napoli e Sicilia con la restaurazione europea sancita dal Congresso di Vienna, fu, per forza di cose, diverso. Le decisioni delle potenze europee non consentivano velleità liberal-costituzionali, ma neanche una restaurazione apertamente reazionaria, nell’intento di assicurare uno spirito di conciliazione e di stabilità. Napoli si indirizzò agevolmente su questa linea ed il ritorno di Ferdinando non determinò un indirizzo reazionario, ma vi fu una sostanziale parità di trattamento tra legittimisti ed ex-murattiani nell’attribuzione degli impieghi, dei titoli nobiliari e dei gradi militari.

La Sicilia attendeva, invece, risposte alle sue aspirazioni autonomistiche, complicate dalla presenza di interessi diversi nelle varie sfere sociali. Forti erano le istanze per una politica antifeudale, per la cui attuazione la monarchia avrebbe trovato non pochi appoggi, ma la risposta del ceto dirigente restaurato non fornì un’adeguata risposta in campo di politica economica e la "questione siciliana" riemerse, determinando per l’isola un percorso storico diverso da quello di Napoli.

Ferdinando I manifestò chiaramente i suoi obiettivi unitari ed assolutistici, infatti abolì la bandiera siciliana e la libertà di stampa, nè convocò più il parlamento. Istituzioni e leggi furono in Sicilia le stesse del Napoletano, e cioè il sistema amministrativo fu analogo a quello che i Francesi avevano imposto a Napoli e nella legislazione fu introdotto il codice napoleonico. Accentramento amministrativo e aumento del peso fiscale furono misure impopolari imposte ai siciliani, che vedevano vanificate le loro speranze separatiste.

Ciò nonostante in un primo tempo non vi fu opposizione da parte dei nobili siciliani, molti dei quali si trasferirono a Napoli, bene accolti a corte dal momento che la seconda moglie di Ferdinando I era la siciliana principessa di Partanna. Manifestarono il loro consenso al nuovo ordinamento anche commercianti e rappresentanti delle corporazioni artigiane, e così pure Messina, Catania, Siracusa ed altri capoluoghi, mentre rimase ostile Palermo, che cessava di essere il centro della vita di corte e perdeva moltissimo del suo prestigio. Più tardi, però, questo iniziale entusiasmo si affievolì quando la leva obbligatoria ed il peso fiscale suscitarono il dissenso. Alla testa di esso non furono nè i democratici, nè i liberali, gli uni e gli altri privi di forza politica, ma l’antico baronato, che, pur avendo approvato l’abolizione della feudalità nel 1812, sperava che essa fosse attuata senza ledere i suoi interessi e mal sopportava l’intento di Napoli di applicarla in senso opposto. I baroni erano contrari all’accentramento amministrativo, che impediva loro di tenere in vita sistemi di patronato e di clientele nelle amministrazioni locali da sempre loro tradizionale campo d’azione. La causa dell’antiriformismo fu associata a quella dell’autonomia dell’isola allo scopo di reclutare maggiori consensi.

Alla testa del governo dopo il 1816 rimasero i politici che avevano seguito re Ferdiando nel suo esilio in Sicilia; un ruolo predominante era rivestito da Luigi dè Medici e dal Tommasi, che, imbevuti di cultura illuministica, assicurarono un indirizzo politico non reazionario ed altamente progressista. Essi conoscevano bene la Sicilia, dove non si erano trovati in sintonia nè con i reazionari, nè con l’aristocrazia costituzionale dell’isola. Medici non aveva condiviso l’indirizzo costituzionale, di cui aveva constatato la precarietà, e seguiva, adesso, un indirizzo politico contrario al costituzionalismo, al separatismo ed alle velleità dell’aristocrazia, mentre coltivava l’ambizioso progetto di fondare una monarchia unitaria sul modello di quella dei Normanni.

Favorevole all’indirizzo unitario ed anticostituzionale era la politica internazionale, infatti l’Inghilterra aveva sempre manifestato le sue perplessita’ sull’opportunità di impiantare in Sicilia il costituzionalismo e adesso era contraria sia all’autonomia che al costituzionalismo nel timore che re Ferdinando, per contrastarlo, si avvicinasse alla Francia, che voleva anch’essa la Sicilia unita a Napoli, per non lasciarla sotto la sfera di influenza dell’ Inghilterra. Il regno delle due Sicilie nasceva, quindi, con il consenso unanime delle potenze europee. La soluzione unitaria trovò larghi consensi a Napoli, perchè la Sicilia veniva ad essere non solo da un punto di vista militare e strategico, ma anche politico ed economico, un punto nevralgico del regno unificato.

In Sicilia l’unificazione venne accettata come modo di superamento dei particolarismi e punto di partenza di una politica antifeudale. Esistevano, però, delle gravi fratture tra la Sicilia occidentale, facente capo a Palermo, e quella orientale, dove Messina rappresentava il caso più emblematico; ma la rivalità con Palermo e l’odio contro i baroni non giunse al punto da far nascere il consenso all’unificazione con Napoli. Manifestavano opposizione all’unità, e quindi alla fine del periodo costituzionale, sia i baroni, sia altri settori della società siciliana antibaronali ed antipalermitani, che vedevano nel mantenimento della costituzione il punto di partenza per una politica di rinnovamento.

Il re voleva, invece, estendere alla Sicilia l’ordinamento di governo adottato a Napoli durante il periodo murattiano. Due leggi, una dell’11 ottobre 1817 e l’altra del 29 maggio 1817, sancirono la rottura con il passato e riformarono la prima, l’amministrazione, la seconda, l’ordinamento giudiziario. L’istituzione della provincia e dell’intendenza come punto di trasmissione del comando centrale furono le più consistenti novità introdotte dalla prima, mentre con la seconda si stabiliva l’adozione del codice napoleonico. Erano misure volte a integrare la Sicilia nel suo legame con Napoli, dove esse si erano già realizzate durante il periodo murattiano.

Sia la Sicilia che Napoli versavano in precarie condizioni finanziarie, la Sicilia per il venir meno dei sussidi inglesi e della favorevole situazione commerciale creata dal blocco continentale, che l’aveva vista centro del commercio mediterraneo; Napoli per le ingenti somme che aveva dovuto pagare alle truppe austriache, che avevano aiutato Ferdinando a riconquistare Napoli.

In Sicilia nulla era cambiato riguardo alla struttura economica: in agricoltura prevalevano le colture estensive ed il pascolo, mentre assente era l’industria, perchè sotto il dominio degli Inglesi questi non si erano interessati alla sua industrializzazione, ma piuttosto allo smercio dei loro manufatti. Napoli, invece, sotto Murat aveva visto fiorire le industrie. Quando nel 1820 vi fu una fase di depressione in Europa con una generale caduta dei prezzi e della domanda di derrate alimentari, il valore della terra diminuì e gli affitti stipulati negli anni precedenti divennero esosi rispetto ai ricavi. La crisi investì proprietari, gabelloti, coloni, braccianti, cioè tutti i ceti sociali interessati nell’attività agricola.

In questo contesto sfavorevole si inserirono i provvedimenti borbonici sull’ordinamento amministrativo e giudiziario, che, accentrando le competenze e estendendo all’isola il sistema amministrativo e il codice napoleonico, che i Francesi avevano imposto a Napoli, colpivano gli arbitri derivanti dalle autonomie locali e, tutto sommato, rappresentavano un progresso sulla via di una più equa amministrazione. Anche il decreto del 1818, che aboliva i fedecommessi, ebbe una benefica ricaduta, perchè dette caratteristiche nuove di mobilita’ e certezza alla proprieta’ fondiaria.

Questi provvedimenti, che andavano in direzione di un rinnovamento e potevano, quindi, trovare consensi, furono, però, affiancati da altri chiaramente impopolari, come la leva obbligatoria e nuove imposte, che acuivano il sentimento di rivalsa dei Siciliani nei confronti di Napoli, coinvolgendo tutti i livelli sociali e non solo i baroni. Il mantenimento delle barriere doganali tra Napoli e Sicilia andava a favore degli interessi di Napoli e contribuiva anch’esso a creare malcontento, mentre il centro dell’opposizione fu Palermo, che venne privata del monopolio dei tribunali dell’isola, di vari uffici e del porto franco, fonte di varie attività lavorative, e che vedeva una perdita di ricchezza e di prestigio.

Il nuovo sistema politico-amministrativo, pur presentando interessanti aspetti di rinnovamento, non riuscì ad attecchire, perchè non seppe attirare il consenso della borghesia, che avrebbe potuto bilanciare l’opposizione baronale e costituire una base di forza per il governo, se avesse operato scelte coraggiose in difesa di nuovi interessi e a danno dei vecchi. Le nuove imposte, poi, e la leva obbligatoria suscitarono anche l’opposizione popolare.
Nonostante i problemi a cui si è fatto cenno l’unione con Napoli ebbe il merito di mettere la Sicilia a contatto con il mondo moderno, profondamente rinnovato dalla ventata della rivoluzione francese.