L’ Etna sta come un immenso gatto di casa che quietamente ronfa e ogni tanto si sveglia, sbadiglia, con pigra lentezza si stiracchia e, con una distratta zampata, copre ora una valle, ora un’altra, cancellando paesi, vigne e giardini”.

Il Vulcano Etna domina maestoso il panorama di Catania

Così, Leonardo Sciascia vedeva, mirabilmente, il vulcano Etna e ai piedi di quell’immenso gatto ronfante, ad appena 28 km di distanza dalle sue bocche fumiganti, si stende Catania, la grande città siciliana nata per la ferrea volontà dell’uomo di riuscire a sfruttare le grandi, fertilissime distese di tufo vulcanico creatisi in millenni d’eruzioni.

I greci calcidesi, subito dopo aver fondato le vicine colonie di Naxos (734 a.C.) e di Leontini (729 a.C.), decisero di insediarsi ancora più vicino a quel grande e pericoloso vulcano che offriva tanto fertile suolo.

Alle quote più basse i suoi fianchi erano ricoperti da una lussureggiante macchia-foresta mediterranea a cui si sostituivano poco più in alto immensi e preziosi boschi secolari di querce e sughere, ricchissimi di selvaggina. A valle le acque limpide di un piccolo fiume che sgorgava dalla montagna e il vicino, grande Simeto risolvevano qualsiasi problema idrico rendendo quell’area ideale per accogliere l’uomo. Per insediare il loro primo nucleo i greci scelsero, vicina al mare, una collina lavica dominante e ben difendibile.

Il sito era abitato da un gruppo di Siculi ma non fu certo un problema sloggiarli.

Di quei primi passi della vita dell’antica Katane non si aveva traccia fino a pochi anni addietro, quando una serie di scavi archeologici effettuati nell ‘area collinare occupata oggi dal monastero dei benedettini di S.Nicola la Rena non hanno messo alla luce tutta una serie di ritrovamenti preistorici e greco arcaici che hanno rischiarato il buio che nascondeva i primi passi della vita della città.

Le alterne vicende della sua lunghissima storia hanno visto Catania cadere e risorgere innumerevoli volte a seconda dell’esito di battaglie, di rivolte, dell’andamento del mercato delle materie prime e dei prodotti locali, delle fortune degli innumerevoli conquistatori stranieri e degli immancabili capovolgimenti politici, amministrativi ed economici che hanno seguito la venuta di ogni nuovo padrone.

Anche la natura e il vulcano hanno influenzato non poco questi alti e bassi con epidemie, eruzioni e terremoti che hanno più volte investito e distrutto la città ma proprio in questi ultimi anni Catania ha attraversato, e ormai superato, gli anni più bui della sua esistenza. Fino agli anni 70, grazie ad un frenetico fervore urbanistico, imprenditoriale e culturale Catania era definita, e a ragione, la “Milano del sud“, poi, lentamente ma inesorabilmente, è stata sempre più pesantemente alla ribalta della peggior cronaca nera, sommersa da scandali che hanno coinvolto imprenditori, uomini politici e mafiosi, contraddistinta da un incredibile, endemica, ingovernabilità amministrativa. Ciò ha causato l’acuirsi dei problemi di una città che si era trasformata intanto in una grande area metropolitana (la terza nel mezzogiorno dopo Napoli e Palermo) che ha inglobato decine di comuni dell’hinterland fin quasi a raggiungere la fascia dei paesi pedemontani dell’Etna.

Sulla costa anche la cittadina di Acicastello fa ormai praticamente parte dell’area urbana catanese così come è accaduto, un trentennio addietro, ai villaggi di pescatori di Ognina e di S.Giovanni li Cuti, un tempo addirittura le mete vacanziere estive preferite dei catanesi. Oggi, circondati da palazzi, circonvallazioni e litoranee sono ciò che resta della Catania marinara: piccole isole di tradizione marinaresca ancora in grado di stupire il visitatore attento.

Partendo proprio da ciò che rimane di questi due borghi marinari si snoda l’itinerario ideale per visitare questa città che offre un insieme di valori architettonici, tradizionali e storici di tutto riguardo e molto ben poco conosciuti dal grande pubblico. Percorrendo la strada litoranea da Ognina a S.Giovanni li Cuti si fiancheggia l’antichissima costa vulcanica, ricca di pareti laviche a strapiombo in cui il mare ha scavato numerose grotte marine.

Si raggiunge quindi la grande Piazza Europa dove esiste una garitta d’avvistamento aragonese costruita su una guglia di roccia vulcanica. E’ poi la volta, lungo il viale Africa, dell’insieme di alte ciminiere in mattoni rossi degli impianti di trasformazione dello zolfo estratto nel nisseno che giungeva fino a Catania in ferrovia per essere raffinato e imbarcato. E’ un nucleo di interessante archeologia industriale della Catania di fine secolo che, fra mille polemiche e scandali tangentizi, è stato alla fine trasformato nel modernissimo quartiere fieristico “Le Ciminiere” che ospita grandi manifestazioni culturali fra le quali ha ottenuto un enorme successo la mostra “Etna, Mito d’Europa“, interamente dedicata al vulcano.

Dopo la stazione ferroviaria e la grande fontana che raffigura il ratto di Proserpina, ci si immette nella Catania più antica ed autentica, quella del centro storico.

Conviene posteggiare l’auto negli ampi parcheggi di Piazza Alcalà (inesistente fino alle opere di riempimento degli anni 30, fino ad allora l’area era occupata dal mare che lambiva i bastioni delle antiche mura difensive).

Subito dopo il terribile terremoto del 1693, i potentissimi monaci benedettini, contravvenendo apertamente alle leggi urbanistiche emanate dal luogotenente del vicerè, costruirono proprio sopra quei bastioni il palazzo del Vescovo, il Seminario dei Chierici e la chiesa di S.Agata a Vetere.

Con la sua influenza, invece, il principe Biscari riuscì ad ottenere il permesso di erigere legalmente, su quelle stesse mura, il suo grande e bellissimo palazzo la cui facciata è straordinariamente adornata da balconi barocchi incorniciati da putti e figure allegoriche. Queste opere dell’abusivismo e della arroganza d’altri tempi si possono ammirare, da poco restaurate, proprio di fronte al parcheggio dove abbiamo appena lasciato l’auto.

Quel terremoto distrusse la città causando migliaia di vittime. I superstiti si misero subito al lavoro per riedificarla secondo direttive che tenevano conto del rischio sismico. Le nuove strade infatti, sarebbero state larghe e diritte, intervallate da ampie piazze, così che la popolazione avesse vie di rifugio in caso di nuovi sismi. Fra i vari architetti che diedero cita alla nuova Catania si distinse il giovane palermitano, naturalizzato catanese, Giovan Battista Vaccarini.

A lui si devono gli innumerevoli edifici disegnati con uno stile barocco che non è ridondante di svolazzi, capricci e fioriture decorative ma è pervaso da una maestosità e bizzarria propria. Del Vaccarini sono numerosi palazzi nobiliari, chiese, la facciata del Duomo, del municipio e la fontana dell’elefante, simbolo della città.

Gran parte di queste opere si trovano concentrate a pochi passi da ciò che rimane delle mura e dal nostro parcheggio. Si oltrepassa quindi la grande Porta Uzzeda resistendo alla tentazione di immergersi subito nel groviglio di colori e suoni della Be si è subito nella grande Piazza Duomo.

Viene disegnata dalla magnifica cattedrale dedicata a S.Agata (per osservarne la possente abside medioevale in pietra lavica, scampata al terremoto, si deve entrare nel cortile dell’arcivescovado da via V.Emanuele), la facciata del Municipio (ribattezzato Palazzo degli elefanti), il Seminario (abusivo) dei Chierici benedettini.

Al centro svetta la curiosa fontana dell’Elefante,creata dal Vaccarini recuperando due cimeli della città sopravvissuti al terremoto. Uno è un grande elefante di pietra lavica su cui non si conosce la provenienza.

Già in età araba la città veniva chiamata “Balad’al fil“, la città dell’elefante e dal 1240, quando ebbe Catania il titolo di città demaniale, l’animale appare in tutti i simboli della città. Il principe di Biscari, grande appassionato di archeologia, sosteneva che la statua fosse una delle numerose sculture che ornavano il circo romano di Catania. Lo storico arabo Idrisi scrive invece che “E’ un talismano di pietra in forma di quell’animale. Nei tempi andati esso stava in vetta ad un alto edificio ma ora è stato trasportato dentro la città…”. Così altri studiosi si schierarono per una sua funzione scaramantica e lo vedevano collocato al di fuori della cerchia delle mura come un talismano per proteggere la città dalle eruzioni del vulcano. Sulla groppa dell’elefante il Vaccarini pose un obelisco egiziano che, sembra, fosse una delle due mete dello stesso circo romano.

In un angolo della Piazza Duomo vi è una seconda fontana, posta nel passaggio che conduce alla Piazza Di Benedetto, occupata dalla pescheria. E’ la fontana dell’Amenano, alimentata dalle acque dell’omonimo fiume, oggi sotterraneo. Un tempo scorreva in superficie lungo l’asse della odierna via Etnea.

Ogni mattina tranne al domenica la pescheria è un brulichio incessante di vita popolare. Torme di pescivendoli ambulanti occupano la piazza Di Benedetto gridando ai quattro venti la convenienza e le virtù del proprio pescato. Oltre il tunnel di un antico posto di guardia medioevale, iniziano i banconi dei venditori a posto fisso con i loro trionfi in bella mostra di pesci spada, aragoste, tonni e l’infinità di altre specie ittiche pescate nel mediterraneo. Le vie dell’adiacente quartiere sono un ribollire di botteghe in cui si vende ogni tipo di genere alimentare, compresa una ghiottoneria tipicamente catanese: “i vavaluci e i crastuni” (lumache di differenti dimensioni che si raccolgono a milioni nelle pianure della Piana di Catania).

La pescheria è uno degli angoli preferiti da Pippo Baudo che a Catania ha studiato e quindi mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo:- “Catania è un vero palcoscenico vivente e osservando la città con la sua spontaneità, le bancarelle dei venditori ambulanti, i quartieri popolari, dove i colori e gli umori del mediterraneo si mettono in scena che si riesce poi a capire e comprendere appieno il suo teatro letterario, quello dei Martoglio e dei Capuana. L’altro palcoscenico quotidiano dell’essenza popolare della città è la “fera o lune” (la fiera del lunedì) che, a meno di un chilometro in linea d’aria, alle spalle del corso Sicilia, unisce un mercato alimentare ad un poliedrico insieme di rigattieri, artigiani, venditori ambulanti di abbigliamento nuovo ed usato, paccottiglia, calzature e chi più ne ha più ne metta.

Lasciando la pescheria percorrendo la via Garibaldi e la traversa, a sinistra, del castello Ursino, si giunge nella piazza dove si erge il grande maniero che Federico II fece costruire tra il 1239 e il 1250. Il castello Ursino è stato edificato su un promontorio circondato dal mare mentre oggi si trova piuttosto lontano dalla costa. E’ stata la colata lavica del 1669 a circondarlo e a protendersi nel mare. Tornando sui propri passi si percorre, verso via Vittorio Emanuele, la piccola via S.Anna che ospita la casa – museo di Giovanni Verga. La semplice abitazione, ricca di cimeli, è rimasta praticamente uguale al tempo in cui il grande scrittore vi morì. Nella lunga via Vittorio Emanuele, il minuscolo “vicolo delle grotte” immette nell’area dei resti del grande teatro greco-romano e dell’Odeon.

Il teatro, costruito in epoca romana su una preesistente struttura greca, poteva contenere oltre 7.000 spettatori. L’attiguo odeon veniva utilizzato solo per prove di cori e per concorsi canori ed aveva una capienza limitata ad alcune centinaia di spettatori. Grandi e lunghe opere di scavo e di restauro hanno a poco a poco restituito quest’area di estremo interesse che era stata in gran parte inglobata da costruzioni residenziali degli ultimi due secoli.

Di fronte al complesso del teatro si affaccia, sulla via V.Emanuele, il bel prospetto del palazzo Gravina Cruyllas e , subito dopo, un mastodontico monumento dedicato al cardinale Dusmet. Nella stessa Piazza, in un ingresso laterale del palazzo Gravina vi è il museo Belliniano, realizzato nella casa dove il compositore trascorse parte della sua giovinezza. Fra i numerosi cimeli, lettere e oggetti appartenuti al compositore, si legge in una parete una lettera di un medico francese che ha indagato sulle cause della morte di Bellini. Si diceva fosse stato avvelenato dal marito geloso di una delle sue temporanee ed innumerevoli infatuazioni parigine invece, molto più stupidamente, egli morì di una semplice infezione intestinale, oggi guaribile con due pillole.

A sinistra della Piazza si supera un pregevole cavalcavia ad arco (fatto costruire abusivamente dal Vescovo nel 1704, “nottetempo”, contro il parere del Senato) e si entra nella stupenda via Crociferi.

Incisivamente il critico d’arte del Corriere della Sera Sebastiano Grasso la definisce come:- “Una visione straordinaria di zoccoli di pietra lavica, gradinate semplici e intramezzate da pianerottoli, balaustre, scaloni con statue di marmo, pilastri con archi, colonne classiche, cupole, addobbi, trabeazioni, logge, balconi, fonti di marmo del Simeto sostenute da pilastri in marmo di Parigi, rilievi in bronzo, cornicioni, scale protette da inferriate, gelosie, capitelli, architravi che hanno fatto di questa strada la vera spina dorsale del barocco catanese”.

Nella via Crociferi sono stati effettuati degli scavi archeologici che hanno dato importanti notizie sulla Catania romana e oggi le strutture sotterranee ritrovate si possono osservare attraverso spessi vetri posti opportunamente sulla sede stradale.

Poco distante si erge il grande complesso benedettino del Monastero di S.Nicolò la Rena che oggi ospita la facoltà di Lettere e Filosofia. Il monastero è oggetto di una vasta opera di restauro e riutilizzo e di quella campagna di scavi archeologici che hanno dato indicazioni preziose sulle pagine più antiche delle prime fasi della storia della città.

Discendendo poi la via di S.Giuliano si giunge ai Quattro canti, creati all’incrocio con la lunghissima via Etnea, il salotto della città. percorrendola si incontrano palazzi nobiliari come il Carcaci, il Demetrio, il Manganelli, chiese stupende come la Colleggiata, la grande Piazza Università con l’antico palazzo universitario dal prezioso cortile interno, il grande giardino Bellini ricco di gazebi, viali alberati, fontane e vasche, la Piazza Stesicoro con la grande statua dedicata a Vicenzo Bellini e i resti del grande anfiteatro romano. Questo ennesimo, antico, teatro serve a ricollegarci a quelli operanti nella Catania d’oggi: Il Massimo Bellini e lo Stabile.

Due delle pochissime entità culturali che siano riuscite a scampare al passato decadimento della città e che hanno rappresentato dei punti di partenza, dei volani, che hanno contribuito anch’essi alla rinascita morale e culturale che ha straordinariamente caratterizzato la Catania del “dopo tangentopoli”.

Il Sindaco Enzo Bianco è certamente stato il principale protagonista di questa rinascita che ha riportato Catania ad essere una città “quasi normale”, con un centro storico (un tempo off limits) tornato nelle mani dei suoi cittadini anche di notte grazie al proliferare di pub e di locali dove si fanno musica e cabaret anche d’avanguardia.

Il Sindaco dice della sua città:- “Amo moltissimo Catania e, appena posso, mi improvviso persino guida degli amici forestieri che non la conoscono. Mi piace stupirli portandoli in giro specialmente di notte, quando le visite di luoghi come la P.zza Duomo, la via Crociferi e la via Etnea diventano un esperienza veramente magica. Certo Catania è ancora caotica e disordinata finchè si vuole ma è comunque viva, dinamica, sorprendente per il visitatore attento. Purtroppo nel passato Catania sembra abbia fatto l’impossibile per tenere lontano il turismo nonostante abbia un aeroporto distante solo 3 km dal centro, un clima forse tra i migliori d’Italia, un centro storico ricchissimo, l’Etna a due passi, il mare.

Non accoglieva i turisti, non li guidava e non li chiamava. Anzi faceva di tutto per respingerli. Solo chi, ostinatamente, aveva deciso ugualmente di conoscere Catania aveva alla fine un premio dalla città dell’elefante“. Oggi non è più così. Con il ritorno alla “quasi normalità” Catania si è riaperta al turismo e alla cultura in un continuo susseguirsi di iniziative di ampio respiro ma le più impostanti e difficili da realizzare sono state quelle che potrebbero sembrare le più scontate: l’istituzione di una linea d’autobus veloce tra aeroporto e centro, la riorganizzazione dei parcheggi a pagamento, la riorganizzazione dei taxi finalmente con il tassametro, l’istituzione di visite guidate del centro storico, l’abbellimento con verde e giardini della città, la realizzazione di aree gioco per i bambini, il mantenere pulita Catania: aspirazioni “quasi normali” un tempo irraggiungibili che oggi sono finalmente una realtà.

Il viaggiatore francese del settecento Rohault de Fleury scrisse che, a suo avviso, erano due le cose che rappresentavano la forza interiore della città e l’anima stessa dei catanesi: Sant’Agata e l’Etna, “due elementi che sembrano, nella loro storia, combattersi come nelle favole il genio del bene e il genio del male“.

Era il 238 d.C. quando nacque a Catania Sant’ Agata. Ancora adolescente non cedette alle lusinghe del proconsole romano Quinziano che la fece quindi sottoporre a tutta una serie di martiri culminati nel taglio delle mammelle. Da allora la venerazione e la fede in quella giovinetta sono per i catanesi qualcosa di incrollabile e dal 3 al 5 di febbraio di ogni anno l’intera città si ferma.

Tutti partecipano alla lunghissima processione del grande, pesante, fercolo della santa che, trainato e spinto da centinaia di devoti, attraversa gran parte del centro storico della città.

La tradizione nasce nel 1126 quando le reliquie della Santa rientrano a Catania dopo un esilio di 86 anni a Costantinopoli, dove le aveva trasportate il generale bizantino Giorgio il Maniace dopo aver sconfitto gli arabi. Alla notizia il vescovo d’allora uscì in processione per la città a piedi scalzi, seguito dal clero, dai nobili e dal popolo.

Secondo una tradizione antichissima i devoti vestono simbolici camici e guanti bianchi con in testa una papalina nera. Le corporazioni di artigiani, macellai, pescivendoli, ortolani e panettieri precedono il fercolo con le rispettive “cannalore”, pesanti costruzioni torrodali in legno alte oltre sei metri dipinte d’oro e addobbatissime, trasportate a spalla da 8 devoti ciascuna. Ogni tanto le cannalore si fermano e gareggiano fra loro effettuando la cosiddetta “annacata”, una serie di movimenti e di dondolii che culminano in uno slancio in alto della cannalora. Tutto avviene tra due ali di folla che agita bianchi fazzoletti e grida “Viva Sant’ Agata”. Persino nello stemma della città i catanesi hanno voluto ricordare la loro amata patrona che ha più volte salvato Catania da eruzioni e pestilenze. E’ infatti l’iniziale di Agata la grande A che appare nello stemma cittadino sotto l’elefante.